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editoriali
Lei ha scritto di nuovo: «Sta girando molto (troppo!) un'informazione falsa, maliziosa. Si dice che Sinistra e Libertà non abbia possibilità di farcela e che, quindi, votarla significhi sprecare il voto. Le informazioni che abbiamo in mano noi, invece, dicono che S&L è sull'orlo del quorum. Se ce la faremo o meno, a questo punto, dipende da ciascuno di noi. Ogni voto può fare la differenza. Basta non scoraggiarsi, basta ricordare a amici, vicini, colleghi che il voto utile è quello che porta le nostre idee in Europa. (…) Come mi dice un amico: "Il voto utile è quello per le cose e le persone in cui credi". Un altro amico mi ha detto: "Non accetto il ricatto del 'voto utile'. Dire che ci sono 'voti utili' e 'voti inutili' è come dire che ci sono 'persone utili' e 'persone inutili'. Ogni persona ha la sua dignità. Ogni voto ha la sua dignità. Faremo il quorum, ne sono certo. Ma in ogni caso, lunedì mattina mi alzerò e potrò guardarmi allo specchio, perché avrò votato secondo coscienza, per la migliore candidata che conosco"». Le scrivo ancora: «Quello che dice l'amico che citi per ultimo non è giusto: una cosa è la dignità di ogni persona, altra cosa è l'efficacia di un voto politico. Sinistra e libertà sarà un'ottima cosa, ma pessima cosa è che le sinistre vadano al voto così divise. È puro e semplice scandalo e stupidaggine, come ti ho già scritto, perché hanno tradito – tutte – il loro dovere politico nel momento gravissimo, mentre Marcon e Pianta avevano fatto la proposta giusta ed efficace. L'idealismo è consentito a me che faccio solo teoria (importantissima cosa, che ha il primato perché – dice il Talmud – porta alla pratica), che soltanto scrivo e parlo, ma non è consentito al politico. Certo, egli deve avere nel cuore e nella mente l'ideale purissimo, ma il suo dovere è tradurre i valori in fatti, anche alla condizione che sia una traduzione solo parziale, nella gradualità ben orientata, e sempre tenendo ben conto della realtà effettiva. Infatti, se vuole la traduzione intera dell’ideale non ottiene nulla, e tradisce il suo compito. Chi pensa e parla deve preoccuparsi solo di verità e giustizia. Chi agisce deve preoccuparsi dell'efficacia, del mettere in atto la verità e la giustizia, anche se questo deve avvenire per parti, cioè mescolato temporaneamente a cose che contraddicono la verità e la giustizia. Io non faccio politica attiva perché non sono capace di questa concretezza e misura, che è dovere del politico. Obama, nel discorso al Cairo e in tutto, finora, mostra di avere idee sostanzialmente molto giuste, e agisce per tradurle in fatti, anche se per ora prosegue la guerra in Afghanistan. Non approvo questo, ma capisco che non può fare tutto subito. A me tocca dire che quella guerra è male, al politico tocca cercare il momento e il modo per farla cessare, che probabilmente non può essere l'immediato. Le sinistre disunite non vogliono davvero tradurre in fatti i valori essenziali della sinistra: giustizia e pace mondiali – che sono condizione per la vera libertà –, democrazia partecipata, ambientalismo. L'unità, infatti, era la condizione necessaria per mantenere nelle istituzioni (che contano) un'azione di sinistra». A conti fatti (scriviamo martedì 9 giugno), non c’è molto – almeno su questo piano – da aggiungere. L’imperfezione della perfetta sinistra. Non sarebbe male imparare qualcosa dagli errori passati. Enrico Peyretti
Bisogna dare atto a papa Ratzinger, che, pur perduto nel suo isolamento di teologo speculativo, pur responsabile istituzionale di un irrigidimento dottrinale e autoritario che ha dato il colpo mortale alle residue speranze di dialogo intraecclesiale che teneva ancora unita la chiesa dopo il riflusso del post-concilio, ha avuto il coraggio di emettere il grido d'allarme e di prospettare come solo rimedio il ritorno alla «priorità che sta al di sopra di tutto: aprire agli uomini l'accesso a Dio. E non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell'amore spinto fino alla fine (Gv 13,1)». Ma perché questo richiamo abbia un senso, perché l'appello pressante a un confronto e a una collaborazione nella Chiesa, che non sia un «mordersi e divorarsi a vicenda (Gal 5, 13-15)», non si perda nel nulla, bisogna capire che la decisione del ritiro della scomunica dei lefebvriani, trasformata in «scandaloso errore» dal patente negazionismo della shoah del vescovo Williamson, non è stata che la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il bubbone, che è esploso, è segno di una malattia che covava da tempo, che ha radici più antiche e sta nello stillicidio, trasformatosi in fiume sempre più impetuoso, di iniziative pontificie e curiali, volte ad arginare, prima, e a spegnere, poi, lo spirito del rinnovamento conciliare. All'inizio si parlava di «interpretare il Concilio alla luce della tradizione», di «evitare utopistiche fughe in avanti e pericolose avventure». Poi poco a poco si è fatta strada la «restaurazione», fino al punto da santificarne i papi, da rivitalizzare formulette da catechismo alla Pio X, e proclami da Sillabo contro la cultura moderna; fino al punto da veder riapparire troni papali settecenteschi, messe in latino, altari rivolti alle pietre delle absidi invece che ai volti dei credenti; fino ad assistere allo spettacolo di vescovi, nominati da chi rifiutava il Concilio, riammessi alla comunione della chiesa, senza chiedere loro la minima disponibilità a rivedere le loro posizioni dottrinali; fino a sentire di intere conferenze episcopali costrette a rifiutare la nomina di un vescovo ultraconservatore, scelto dall'alto in trasgressione flagrante e immotivata delle stesse norme canoniche; fino a cogliere i responsabili di dicasteri vaticani e della Cei in flagrante tentativo di ingerenza nelle scelte legislative ed elettorali della politica italiana; fino a toccare con mano che ogni ragionevole appello alla riforma di regole tradizionali obsolete e di normative etiche intollerabili, veniva respinto senza argomentazioni convincenti; fino a doversi fingere sordi per non udire porporati dare dell'«assassino» a un padre disperato, vicari episcopali negare funerali a morti dopo decenni di sofferenti agonie, vescovi pronti a scomunicare chi aveva collaborato all'aborto di una bambina di nove anni in pericolo di vita a seguito della violenza del padre, dichiarare che «la scomunica di quest'ultimo non era necessaria, perché il suo delitto riguardava lo stato ma non la Chiesa». I vescovi hanno paura e il papa lo dice ad alta voce che nella chiesa esploda un'aperta ribellione della periferia contro il centro, della base contro i vertici, dei laici contro il clero. Hanno ragione. Hanno paura perché sanno bene che loro stessi sono la fonte di questo pericolo. Hanno paura della propria solitudine, della propria incapacità di dialogo, della propria chiusura su se stessi, della propria pochezza come pastori. Hanno paura perché fa loro paura il vangelo, fa loro paura non il mondo dei non credenti o l'aggressività degli atei, ma la fede stessa dei credenti. Fa loro paura rendersi conto che la comunità di cui sono pastori non è una comunità disposta a qualsiasi compromesso pur di stare in pace nel proprio mediocre benessere; ma è una comunità viva che si interroga sulle esigenze della fede, vuole rendere pubblicamente conto, anche nella chiesa, della speranza che è in lei, vuole che la sua chiesa intera sia testimone dell'amore del Cristo e del Padre, non solo a parole ma nei fatti. Eppure, tale paura potrebbe trasformarsi in fruttuosa e gioiosa scoperta di non essere soli, di avere una comunità che li segue e li stimola, di essere nel mondo testimoni di Cristo, perché intimamente animati da Lui, se solo sapessero riaprirsi al dialogo con la Parola di Dio, coi propri fedeli, con la comunità di fratelli e sorelle, di preti, religiosi e laici che nel cammino della storia li accompagna. Non resta che augurarsi che questo riconoscimento di «errore» del papa, questo appello al dialogo e al confronto, in libertà, rispetto reciproco e collaborazione, non si limiti a essere un appello strumentale all'ordine, ma sia l'inizio di una seria riflessione ecclesiale che coinvolge tutti dal Primo all'Ultimo. □
L'impressione è che il confronto tra due ragioni – il dovere di ciascuno di noi e dell'intera società di difendere la vita dall'inizio alla fine e quello di rispettarne sempre la libertà, che necessariamente si esprime come autonoma responsabilità di decisione del singolo – è stata trasformata, per ragioni di prestigio ideologico e di potere, in un feroce corpo a corpo di torti, che travolgono, invece di rispettare, il difficile, nel caso, tragico passo alla morte delle persone. È così che l'agonia di una giovane donna, che si è prolungata per diciassette anni, è assurta a bandiera di un'intricata lotta tra clericali e anticlericali, potere giudiziario e potere politico, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, leggi dello stato e norme della chiesa. Il tutto scavalcando ogni diritto e ogni dovere delle persone: familiari, medici, singoli cittadini, credenti o non credenti, coinvolti nella vicenda direttamente o anche solo interessati a capire che ne sarà del proprio faticoso passaggio a quello che un tempo era detto l'«aldilà». Si attenderebbero i non credenti di poterlo affrontare come difficile cessazione di vita, senza ulteriori prospettive, confortati però dall'amore dei familiari e degli amici e aiutati dal sapere medico, anche a questo deputato, così che il passo sia meno doloroso e il più umano possibile. Spererebbero i credenti di trovarsi accanto, oltre a tutto ciò, anche una parola di incoraggiamento a sentire tale atto non solo come una fine, ma anche come possibile inizio di una nuova vita, redenta dal dolore e dal peccato. Sentono oggi da chi detiene il potere nello stato e nella chiesa che tale momento sarà, a causa delle leggi di tutela e controllo da tali poteri richieste e imposte a ogni loro singolo passo fisico e singola richiesta di aiuto medico o amicale, solo «orribile morte», da scamparsi ad ogni costo, anche al costo di un'agonia senza fine, vero inferno in terra. Il che aumenta, invece che diminuire, il senso di paura e di smarrimento che colpisce ogni vivente al primo manifestarsi di qualche segnale di fragilità che lo possa far pensare a una fine prossima o anche solo possibile. Pietà sembra morta per la chiesa e per lo stato, purché chiesa e stato si assicurino il diritto di mettere il loro imprimatur sul morire di ciascuno, proprio come a suo tempo hanno fatto per il nascere. Andiamo forse verso un’ulteriore burocratizzazione del nascere o del morire, con tutto ciò che ogni burocrazia comporta come ulteriore e penoso carico di difficoltà per il vivere. Hanno protestato e protestano i laici non credenti, accusati di anticlericalismo. È giusto far sapere che protestano anche molti credenti, in nome del Vangelo e dell'autentico spirito di rispetto per l'uomo e di visione comunitaria e non gerarchica della chiesa, propri del Vaticano II. Protesta anche larga parte del «popolo di Dio», o, se si vuole, dei cristiani, anche cattolici, laici e preti, costretti oggi al silenzio da un autoritarismo ecclesiastico anti-conciliare, che trascina la chiesa al disastro, e da un laicismo ideologico che preferisce ignorarne l'esistenza, perché li ritiene ridicolo residuo di un sentire religioso ormai storicamente superato. Possiamo sottolineare l'assenza, in questo dibattito sulla morte, di una parola cara alla tradizione, una parola laica e precristiana, piena di umana verità e di sofferta passione: «agonia». Ci siamo così abituati a lasciare gestire la morte dei nostri cari agli ospedali, da aver dimenticato che tra la vita e la morte sta spesso, sempre più spesso, il momento ultimo e penosissimo del transitus, il momento del «lento morire». Questa espressione estrema della vita gli antichi la chiamavano «agonia», lotta e sofferenza, augurandosi fosse presto vittoriosa. Sapendo, però, che in ultimo sarebbe stata perdente e che la vita fisica avrebbe ceduto alla morte, perché siamo carne e polvere, alla polvere destinata, non operavano affinché si prolungasse troppo a lungo. In qualche paese è ancora in uso una pratica antica. Un mesto rintocco di campana segna l'inizio dell'agonia di un morente, e ciascuno lo sente come invito a pregare perché Dio accolga l'anima dell'agonizzante e l'agonia non sia un travaglio troppo prolungato e penoso alla nuova vita che ci attende presso Dio. Persino nelle società pre-cristiane e presso i popoli delle più svariate e più o meno evolute civiltà, era ed è uso, a fronte dell'estremo atto di resistenza e di resa della vita alla morte, pregare il divino perché lo renda rapido e indolore. Si chiedeva e si chiede a chi può che non lo prolunghi. Si invoca dagli amici e persino dai nemici la pietà di affrettarne la fine, di non trasformare il morire in tortura. Scomparsa l'esperienza diretta delle morti in casa e in famiglia, di questo transitus, comune e spesso pubblico, dalla vita alla morte, è scomparso anche l'uso comune della parola «agonia», che gli dava voce. È accaduto così che non si sia capito che nel caso di Eluana, non la vita, ma la sua agonia durava da diciassette anni, e che la questione in gioco non era restituirle la vita o darle morte, ma allungare, senza pietà, questa agonia, o pietosamente aiutarla a chiudersi nell'unico modo ormai possibile. Anche questo produce la crescita dell'ignoranza pubblica e la perdita del prezioso dono delle parole, elaborate dalla cultura millenaria dei popoli di cui il cristianesimo è una straordinaria e ineguagliata espressione. □ |
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