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editoriali
Come nel caso del giuristaUgo Mattei che indossa i panni di un Galimberti redivivo e invoca un nuovo Cln. Ma anche qualcuno tra i suoi avversari è preda di un sacro furore e alza i toni, invocando “tolleranza zero”. Noi abbiamo scelto la vaccinazione, perché temiamo il covid più del vaccino. Se qualcuno teme il vaccino più del virus e non è convinto che la campagna di vaccinazione sia di generale utilità, rispettiamo la sua scelta, che non condividiamo (d’altronde, il meglio della tradizione liberale – dall’illuminismo in poi –non consiste forse nel riconoscere pieno diritto di cittadinanza alle opinioni che non si condividono?). Intanto valutiamo positivamente che quasi il 90% degli italiani abbia deciso di vaccinarsi; mentre non valutiamo positivamente l’escalation di questa ‘guerra’ e il fatto che molti corrano ad arruolarvisi. Si ha l’impressione che ‒ come in tutte le guerre ‒ anche in questa la prima vittima sia la verità, e anche in questa il tuono dei cannoni serva innanzitutto a silenziare la riflessione e il pensiero critico. In concreto, ci riferiamo al fatto che l’astiosa querelle polemica cui assistiamo ogni giorno nei talk show e sui social (sino alla noia e alla nausea) sta ottenendo un risultato: ridurre al lumicino la discussione e l’impegno per una nuova politica dei servizi pubblici. Pensiamo ai trasporti o alla scuola. Nei primi mesi della pandemia si era evidenziato come certe carenze strutturali ne rendessero assai più problematica la gestione. La rete del trasporto locale ha subìto nell’ultimo ventennio un continuo ridimensionamento, mentre nella scuola tutti lamentavano il problema delle classi numerose. Due anni dopo si può dire che nulla è stato fatto. Non solo. Nulla, o quasi nulla, è stato avviato. Nemmeno una riduzione di una o due unità del numero massimo degli alunni nelle classi prime, peraltro agevolata dalla costante diminuzione del numero complessivo degli utenti (stendiamo un pietoso velo sui banchi con rotelle o senza). Chi confida nell’obbligo di green pass sui mezzi pubblici evidentemente non li frequenta granché: altrimenti saprebbe che spesso i controllori stenterebbero a farsi largo strusciando e sgomitando tra un passeggero e l’altro. Ma più ancora dei trasporti o della scuola, il nodo decisivo doveva essere quello della sanità. Tutti sanno che per un lungo periodo questo settore è stato soggetto a tagli consistenti: la sanità piemontese, ad esempio, ha perso tra il 2010 e il 2017 seimila posti letto e 3800 occupati. Per molti anni gli stessi Ordini dei Medici hanno segnalato che nel nostro paese i numeri degli accessi nelle ‘specialità’ di medicina non avrebbero consentito di garantire nemmeno l’ordinario turn over del personale, mentre anche gli infermieri erano insufficienti. Nella pandemia si sono visti – e si vedono e si vedranno – i risultati di quelle scelte (nel frattempo, non si è trovato di meglio che alzare da 1500 a 1800 il numero massimo dei mutuati dei medici di famiglia, che ormai scarseggiano). Qualcuno ha ascoltato, in questi due anni, un messaggio politico forte per una radicale inversione di tendenza e per un generale rilancio – a livello nazionale e nelle singole regioni - della sanità pubblica? Qualcuno, tra i responsabili del passato, ha ammesso che si era andati nella direzione sbagliata? Sarebbe bello – ma difficile – rispondere di sì. Per di più, purtroppo, quella tendenza ha avuto una larga condivisione ‘bipartisan’. Se ne vedono i frutti ancor oggi, in area torinese, nel progetto Città della Salute, su cui la politica tace o annuisce, anche quando l’Ordine dei Medici critica come insostenibile la prevista riduzione dei posti letto (da 1400 a 1050) rispetto agli ospedali dismessi; mentre segna il passo il potenziamento – giustamente invocato come fondamentale – della “medicina di territorio”. Ovviamente, in questo contesto sembrano finire nell’ombra o nel dimenticatoio – lontani da qualsiasi agenda politica - anche temi ben più vasti, dalla diseguaglianza globale (che fa dell’Africa la Cenerentola dei vaccini) alla relazione tra ecologia e pandemie. Ma ora, scusate l’intermezzo, torniamo alla partita Sì vax – No vax. Fa più audience. □
La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno. Inoltre, è in aumento in tutte le aree del mondo. I singoli governi sono sotto pressione e incrementano la spesa militare per stare al passo con gli altri Paesi. Il meccanismo della controreazione alimenta una corsa agli armamenti in crescita esponenziale, il che equivale a un colossale dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate a scopi migliori. In passato, la corsa agli armamenti ha spesso condotto a un’unica conseguenza: lo scoppio di guerre sanguinose e devastanti. Noi vogliamo presentare una semplice proposta per l’umanità: che i governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite si impegnino ad avviare trattative per una riduzione concordata della spesa militare del 2 % ogni anno, per cinque anni. La nostra proposta si basa su una logica elementare: ‒ Le nazioni nemiche ridurranno la spesa militare, e così facendo rafforzeranno la sicurezza dei rispettivi Paesi, pur conservando l’equilibrio delle forze e dei deterrenti. ‒ L’accordo siglato servirà a contenere le ostilità, riducendo il rischio di futuri conflitti. ‒ Enormi risorse verranno liberate e rese disponibili, il cosiddetto «dividendo della pace», pari a mille miliardi di dollari statunitensi entro il 2030. La metà delle risorse sbloccate da questo accordo verrà convogliata in un fondo globale, sotto la vigilanza delle Nazioni Unite, per far fronte alle istanze più pressanti dell’umanità: pandemie, cambiamenti climatici e povertà estrema. L’altra metà resterà a disposizione dei singoli governi. Così facendo, tutti i Paesi potranno attingere a nuove e ingenti risorse, che in parte si potranno utilizzare per reindirizzare le notevoli capacità di ricerca dell’industria militare verso scopi pacifici nei settori di massima urgenza. La storia dimostra che è possibile siglare accordi per limitare la proliferazione degli armamenti: grazie ai trattati Salt e Start, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno ridotto i loro arsenali nucleari del 90 percento dagli anni Ottanta ad oggi. I negoziati da noi proposti avranno una buona possibilità di successo, perché fondati su un ragionamento logico: ciascun attore sarà in grado di beneficiare dalla riduzione degli arsenali del nemico, e così pure l’intera umanità. In questo momento, il genere umano si ritrova ad affrontare pericoli e minacce che sarà possibile scongiurare solo tramite la collaborazione. Cerchiamo di collaborare tutti insieme, anziché combatterci. Seguono le firme dei premi Nobel promotori. Testo originale: peace-dividend.org, traduzione italiana da lists.peacelink.it. □
![]() La riduzione degli armamenti e un'economia di pace è una delle condizioni per affrontare con successo il riscaldamento del pianeta e operare nel delicatissimo ambiente del mare Artico e della Siberia orientale è un atto di arroganza nei riguardi dell'intero pianeta. Del resto la Russia di Putin è stata assai defilata nelle faticose trattative della COP26 di Glasgow, più ancora della Cina con la quale l'inviato americano John Kerry è riuscito almeno a concludere un vago accordo, seguito poi dall'incontro virtuale, non negativo, ai massimi livelli, tra Biden e Xi. Non meno importante è il quadrante occidentale, dove la Russia confina con Estonia e Lettonia, e la Bielorussia con la Lituania, ma dove esiste la regione russa di Kaliningrad (la Koenigsberg, patria di Kant), isolata dalla madrepatria e raggiungibile soltanto con il corridoio di Suwalki, a cavallo del confine tra Polonia e Lituania. Ogni riferimento al corridoio di Danzica (1939) non è puramente casuale. In questi territori da molti anni si svolgono periodicamente esercitazioni muscolari contrapposte che vedono Russia e satelliti da un lato e Nato dall'altro, con pericolosi scenari di guerra "convenzionale", cioè senza uso di armi atomiche, almeno ufficialmente (cfr. M. Perosino, Giochi di guerra in Europa, La Stampa, 22.9.2017 e M. Bresolin, Il mondo in dieci zone di crisi, La Stampa, 30.1.2019). Qualcuno sostiene che la Nato andrebbe sciolta perché storicamente superata e utile spesso a coprire operazioni belliche che non hanno nulla a che vedere con i suoi motivi fondativi. Bisognerebbe però, per onestà, chiedere, ad esempio, cosa ne pensino gli abitanti delle repubbliche baltiche, che all’indomani del 1989, memori della loro tragica storia e dell’ingombrante vicino, entrarono al più presto possibile nella Nato, nell’Ue, nell’euro. La Russia, infatti, con qualche decina di carri armati, potrebbe occupare le capitali baltiche nel giro di una notte. Le prospettive sono assai preoccupanti se si pensa che in novembre abbiamo assistito alla tragica e vergognosa vicenda dei migranti al confine tra Bielorussia e Polonia, nella sostanziale indifferenza dei vari stati nazionali europei, che avrebbero potuto accoglierne qualche centinaio ciascuno, senza grandi problemi. Nel contempo la Russia ammassava ai confini dell’Ucraina circa 100.000 soldati. Occorre un rinnovato impegno per frenare la nuova disordinata e incontrollabile corsa agli armamenti, ricordando che «solo il disarmo è razionale» sotto ogni aspetto, a partire da quello economico, liberando enormi risorse che ora è necessario impiegare per l’emergenza climatica. E nella speranza che quasi tre secoli dopo abbia ragione Federico II di Prussia quando affermava «Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle mie file». □ |
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