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editoriali
Avvertenza
Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.
Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale. |
Scrivere sui gravi fatti avvenuti a Colonia la notte di Capodanno non è compito facile: occorre farlo a mente lucida, senza dare troppo spazio ai sentimenti di orrore e di rabbia che simili crimini suscitano. Occorrerebbe, prima di tutto, cercare di comprendere cosa sia veramente successo, orientarsi fra molteplici ricostruzioni giornalistiche, spesso contrastanti, e fra le innumerevoli reazioni che tale vicenda ha suscitato. La vicenda ha prevedibilmente scatenato una tempesta politica in Germania, che nel 2015 ha accolto oltre un milione di profughi; il ministro della Giustizia tedesco ha evocato lo spettro del terrorismo islamico, dichiarando che si era trattato di un attacco pianificato, ipotesi smentita con fermezza dalla polizia. Nel momento in cui scriviamo manca ancora un quadro esatto degli eventi, né sono state accertate precise responsabilità, individuali e istituzionali. Le aggressioni di massa di fronte alla stazione sono state rese pubbliche solo alcuni giorni dopo, ritardo che ha senza dubbio favorito il rincorrersi di notizie non sempre coerenti. Ad oggi, sono circa settecento le denunce presentate per i fatti di Capodanno: la maggior parte riguardano furti e rapine, mentre sono molto meno numerose le denunce per molestie sessuali.
Se i fatti sono tutt'altro che chiari, quel che è certo è lo straordinario significato politico assunto dalla vicenda e l'eco da essa suscitata in tutta Europa. La tragica notte di Capodanno a Colonia – ma anche in altre città del Nord Europa sono stati segnalati analoghi episodi, sebbene in proporzioni ridotte – ha dimostrato, se mai ce ne fosse ancora bisogno, l'enorme problema rappresentato dall'aumento di migranti e profughi, che l'opinione pubblica identifica, in modo grossolano ma efficace, con i musulmani in genere. In Italia il Capodanno di Colonia è stato, prima di tutto, occasione per fare l'ennesimo sfoggio di pessimo giornalismo: importanti quotidiani e un tg nazionale hanno diffuso foto e video in seguito rivelatisi falsi. Mentre in Germania, prevedibilmente, la polemica si è concentrata sul difficile compromesso fra sicurezza e rispetto dei diritti umani, in ambito italiano il dibattito si è spostato dal piano socio-politico a quello socio-culturale, evocando lo scontro di civiltà fra Oriente e Occidente, adombrato dalla questione femminile. Sotto quest'ultimo punto di vista, il nostro è probabilmente fra i paesi meno adatti a dare lezioni di parità fra i generi, visto che siamo uno stato in cui solo nel 1996 lo stupro è stato riconosciuto un crimine contro la donna e nel quale, ogni anno, si contano a decine le donne assassinate dai loro uomini. Proprio per questa ragione, tuttavia, il dibattito sullo scontro fra una cultura profondamente maschilista, com'è percepita quella islamica, e la cultura occidentale, aperta alla valorizzazione dell'altro sesso, ha trovato uno spazio enorme sui media italiani: si tratta di un tema che ci tocca nel profondo, perché, nel momento in cui rivendichiamo la nostra superiorità sull'islam in tema di parità dei diritti, ci accorgiamo di avere ancora noi stessi molta strada da percorrere. Feroci polemiche hanno suscitato le dichiarazioni di un imam di Colonia, secondo il quale a scatenare le violenze sono state le donne, con il loro abbigliamento provocante; ma le sue parole attingono agli stessi stereotipi culturali che inducono ancora molti di noi a pensare che, a volte, le donne vittime di aggressioni sessuali «un po' se la sono cercata»: accusa magari non pronunciata apertamente, ma sussurrata a denti stretti, in particolare quando l'aggressore è un italiano, mentre se è un immigrato, peggio ancora musulmano, partono i cortei in solidarietà della vittima – ma soprattutto contro gli immigrati.
D'altra parte, numerosi commentatori hanno osservato che la sopraffazione verso le donne non è «il vero islam», sottolineando che gli aggressori di Colonia non hanno nulla a che fare con l'islam. Ci piaccia o no, invece, anche quello è islam: la parità fra i sessi nella maggioranza dei Paesi a predominanza islamica è molto più lontana di quanto non lo sia perfino in Italia. Proprio come la caccia alle streghe, l'Inquisizione, le guerre di religione erano anch'esse cristianesimo − non mancavano le ragioni politiche, ma la giustificazione primaria, comunemente accettata, rimaneva quella di fede – così il predominio maschile sulle donne, proprio come l'Isis e lo jihad, sono un frutto dell'islam: certo, un frutto deteriore, aberrante fin che si vuole, ma che dall'islam trae le proprie arbitrarie radici. Quello che, forse, si dovrebbe finalmente ammettere, è che sì, un problema con l'islam c'è: il travagliato, in alcuni casi drammatico, incontro fra alcuni valori che la cultura occidentale, sia pure a fatica e non uniformemente, è arrivata a riconoscere come irrinunciabili per la società civile, e una cultura che, sebbene molto differenziata al proprio interno, quei valori non li ha ancora assimilati e, in non pochi casi, rifiuta di discuterli. Gli aggressori di Colonia erano, magari, semplicemente gruppi di giovani uomini sfaccendati e senza fissa dimora, che sotto l'effetto di alcool e droga hanno seguito un istinto primordiale, senza pensare troppo all'islam: ma la reazione della politica tedesca e dell'opinione pubblica europea dimostra che è in atto, almeno nella percezione comune, uno scontro di culture la cui esistenza non può essere negata, se la si vuole affrontare con il dialogo e non con le armi.
□ Il 13 marzo del 2015, a pochi mesi dalla deludente conclusione della prima sezione del Sinodo speciale sulla famiglia, dopo avere ben ponderato il pericolo che, facendo leva sulla presunta irreformabilità della dottrina, l'opposizione di un significativo gruppo di cardinali e vescovi conservatori potesse impedire alla sua linea riformatrice di superare il placet finale dei due terzi dei Sinodali, Jorge Bergoglio ha annunciato la prossima apertura di un Anno santo della Misericordia. Ha deciso cioè di sparigliare le carte e di buttare sul tavolo la briscola dell'autonomia decisionale del Papa, la carta che permette a chi la usa di costringere tutti a ripartire dalla sua prossima mossa. Ancora una volta una mossa spiazzante, perché inattesa e soprattutto in conclamata contraddizione con ogni precedente dichiarazione sulla necessità di riequilibrare il rapporto tra collegialità e primato pontificio, di ridimensionare la centralità dottrinale e decisionale di Roma e di restituire all'annuncio evangelico del perdono e della salvezza la sua originaria connotazione di dono gratuito, connesso alla pratica della giustizia e della misericordia. Tutti sappiamo, infatti, che il primo Giubileo cristiano fu proclamato, con atto autocratico, da Bonifacio VIII, nemico dei movimenti francescani più fedeli alla “Regola” del Santo, per riaffermare la centralità religiosa e politica del papa e di Roma e accrescere la sua potenza finanziaria. E in molti abbiamo temuto che la scelta di tale strumento per valorizzare misericordia e perdono, ricerca della giustizia e della pace, potesse trasformarsi in una trappola per la riforma di Francesco e per il suo rinnovato impegno ecumenico. Così non è stato. Non solo perché papa Bergoglio ha continuato nel suo impegno a ventilare la paglia per ripulire il grano, ma anche perché, con precise scelte operative, ha dimostrato che il Giubileo celebrativo del cinquantenario del Concilio poteva e doveva essere “conciliarmente” qualificato e trasformato in modo tale da rovesciarne completamente la funzione pastorale. E oggi dobbiamo riconoscere che l'abituale tendenza a valutare ogni azione dei papi alla luce di quanto hanno storicamente fatto i loro predecessori, risulta inadeguata per interpretare le parole e i gesti dell'attuale vescovo di Roma. Va stretta a lui e fa da paraocchi a noi. L'inizio del Giubileo della misericordia, assai più coi gesti messi in atto dal papa che col suo ben articolato decreto di indizione, ha reso chiaro che questa volta sarebbe stato davvero difficile, anche se non impossibile, mescolare il pentimento dell'uomo e il perdono di Dio con la vendita, più o meno camuffata, delle indulgenze, con atti di culto e offerte alla chiesa. Questo perché l'accesso al perdono divino, che col suo annuncio evangelico la chiesa metteva a disposizione degli uomini, non era legato a costosi pellegrinaggi alle basiliche romane e a reiterate orazioni rituali, ma veniva strettamente connesso alla pratica del perdono tra uomini, sulla base dell'ingiunzione profetica: “Giustizia voglio e misericordia, non altari e sacrifici”. Ingiunzione, che ripresa dai Sinottici, è riaggiornata, in modo originalissimo, a beneficio di tutte le creature, cielo, terra e mare compresi, nella Laudato sì. Se poi aggiungiamo che la prima Porta Santa, il Papa è andato ad aprirla, in primis, nella cattedrale di Bangui nel Centrafrica, proclamata «capitale spirituale della preghiera per la misericordia»; che ha invitato i vescovi di tutto le diocesi del mondo a aprire Porte Sante, con le stesse prerogative di quelle romane, là dove ritenessero opportuno per il bene dei fedeli di quelle terre; che lui stesso ha aperto nella sua diocesi “porte del perdono” in edifici santi, non per altro che per il loro essere luoghi di umana pietà e soccorso agli ultimi, comprendiamo come questo Giubileo, ben più che un classico Santo Giubileo e un Giubileo santamente laico, come laico è il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. E ci rendiamo pure conto che il Papa, proprio come i vescovi, Pietro e gli apostoli tutti, è, per Jorge-Francesco, ben più un altro Giovanni battezzatore, testimone della cristicità di Gesù, che un alter Christus. Per questo, facciamo nostra la conclusione di Tonio Dell'Olio su questo tema (su «Rocca» del 1/1/2016): «Il Giubileo diffuso, aperto profeticamente da Papa Francesco, contiene l'invito, rivolto a tutti i credenti, a varcare le porte della chiesa non solo per entravi ma anche per uscirne». Ed è questa in fondo la vera sfida che Francesco il Santo e Francesco il Papa lanciano ai cristiani del loro tempo e forse non solo ai cristiani. Proclamando, infatti, che la porta della comunità dei discepoli di Gesù è sempre aperta, proclamano anche, in risposta a chi spranga le case, alza muri di cinta, presidia in armi le frontiere, decapita gli oppositori e rompe ogni relazione coi nemici, che la gelosia del proprio e la paura dell'altro figliano odio e guerra, mentre l'accoglienza e la condivisione preparano la pace.
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Nel mondo girano troppe armi. Non stiamo parlando di qualche cassa di fucili con relative munizioni, ma di navi container che trasportano interi sistemi d’arma in grado di rifornire veri e propri eserciti. I fornitori non sono solo le grandi potenze, ma anche quelle medie e locali. Il loro obiettivo è geopolitico, aiutare i paesi amici, rifornire i gruppi ribelli che si oppongono agli stati nemici per destabilizzarli, seguendo la collaudata politica che afferma che i nemici dei nostri nemici possono essere nostri amici. Intendiamoci, questa è una politica che si è sempre praticata fin dalle epoche antiche, basti pensare all’unità d’Italia, favorita da Francia ed Inghilterra in funzione anti austriaca. Oggi però in un mondo globale interconnesso, caotico, con comunicazioni così complicate, questa strategia mostra tutta la sua pericolosità. Non si può più sapere con certezza alla fine da chi e contro chi queste armi saranno impugnate. Inoltre le guerre non sono più combattute tra eserciti contrapposti con regolare dichiarazione, dove il più forte alla fine vince: quella in cui ci siamo infilati dall’11 settembre è una guerra asimmetrica senza fronti, senza retrovie e zone franche, combattuta nelle città, nei centri vitali, nelle zone di rifornimento delle materie prime, nelle informazioni. Occorre che le classi dirigenti delle grandi potenze prendano atto di questa mutata realtà ed agiscano di conseguenza. Deposte le diffidenze e i giochi sporchi che oggi si possono trasformare in un boomerang, devono sedersi intorno ad un tavolo, dichiarando chiaramente quali sono i loro interessi vitali a cui non possono rinunciare, per pervenire infine ad un accordo globale che possa ridurre al minimo il profluvio di armi in circolazione. Anche le potenze locali recalcitranti dovranno essere forzate ad aderire a questo accordo. La loro competizione dovrà essere trasferita ad altri campi meno pericolosi. Questo prima che la situazione diventi irrecuperabile. Particolare attenzione dovrà essere dedicata al mondo islamico, ricco di risorse ma mal distribuite, con una popolazione giovane in rapida crescita spesso senza sbocchi, governata da una classe dirigente per la maggior parte incapace e corrotta tenuta al potere per interessi esterni. E l’avvio a soluzione della tragedia palestinese è a questo proposito cruciale. La spinta del popolo, che è quello che subisce maggiormente i colpi di questa guerra asimmetrica, è fondamentale per decidere quale direzione prenderanno gli avvenimenti. È necessaria però una migliore informazione e partecipazione e una classe dirigente più seria e preparata. Anche qui però bisogna fare in fretta perché se la situazione peggiorerà e gli attentati diventeranno sempre più devastanti, larghe parti di società si radicalizzerà in senso sempre più aggressivo e xenofobo portando infine ad uno scontro di civiltà catastrofico, che è proprio l’obiettivo che si prefiggono i jihadisti. Sugli attentati di Parigi. Tra l’immensa tristezza generata da tanta violenza brutale, insensata e inutile, si accende una piccola fiammella di conforto: l’amore mostrato da tanti europei, soprattutto giovani, per la capitale francese ferita dal terrorismo. È anche attraverso queste dure prove collettive che si forma nel tempo una coscienza comune, l’unica che può dare sostanza e forza ad un cammino d’unione. Mentre ci sembra sbagliata la prima reazione di Holland, il Presidente francese, troppo emotiva ed inutilmente aggressiva, che dimostra debolezza e sbandamento invece di forza e determinazione come vorrebbe. È il tipo di reazione che si augurano gli organizzatori degli attentati. E non è una scusante la vicinanza delle elezioni in Francia, periodo scelto forse non a caso, così come quello delle bombe a Madrid che portò alla sconfitta di Aznar. Per certi versi Hollande ci ha ricordato Bush dopo le torri gemelle con la reazione scomposta e i tanti errori commessi. Abbiamo bisogno di classi dirigenti all’altezza delle sfide che ci attendono.
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