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editoriali
Avvertenza
Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.
Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale. |
Il panorama non è dei migliori. Proposte pirotecniche, richieste contraddittorie, sovrana irresponsabilità. Aiutiamo i giovani e intanto riformiamo le pensioni, dirottando altre risorse a favore degli anziani. Aumentiamo subito la spesa pubblica in deficit, per ridurre poi, forse... il debito complessivo. Le elezioni non chiariranno chi deve governare? Non importa, torneremo a votare entro sei mesi. Forse si è dimenticato cosa accadde in Italia nei primi anni Venti, e in Germania nei primi anni Trenta a furia di elezioni ripetute e ravvicinate.
Nulla sui grandi temi (pericolo nucleare o riscaldamento globale). Europa, poco e male. Basti un esempio. A un intervento di un commissario europeo sul rischio delle elezioni italiane, una leader del centro-destra ha dichiarato: «L'Europa faccia gli affari suoi». Come se non fossero affari nostri e di tutti gli europei. In quell'Unione europea a cui conviene tenerci ben aggrappati, con tutti i suoi difetti, perché, è banale ricordarlo, ci ha comunque garantito pace e benessere per tre generazioni.
Ciò premesso, si dovrebbe andare alle urne con l'orgoglio di esercitare una delle fondamentali funzioni della sovranità popolare, coscienti che la situazione è molto complessa, che ogni strumento umano è imperfetto e che è auspicabile un sano pragmatismo, senza pensare a palingenesi, né possibili, né augurabili, visti alcuni precedenti storici.
Il voto utile rischia di appiattirsi sull'esistente che non ci soddisfa. Il voto di testimonianza alza lo sguardo verso mete ambiziose, ma lontane, e nel frattempo rischia far vincere il peggio. Si tratta di scelte relative e opinabili. È vero che durante il fascismo nuclei ristretti e coraggiosi mantennero accesa quella speranza che poi produsse la Resistenza e la Costituzione, ma allora come in ogni dittatura il potere non era contendibile, oggi nel nostro sistema lo è. E va conteso a chi ha idee diverse e opposte. Non si può rinunciare alla battaglia, non si può avere una concezione demoniaca del potere politico.
In Italia ci sono attualmente circa 3000 comuni in cui, per merito dei volontari e delle amministrazioni locali, si realizzano buone, talora ottime esperienze di integrazione dei migranti. Piccoli gruppi, buoni corsi di lingua, lavori utili, progetti Sprar ben collaudati. Una forza politica molto aggressiva (i mantra sono «invasione incontrollata» e «islamizzazione dell'Italia») propone esplicitamente la riduzione, se non l'azzeramento dei fondi per questo tipo d'integrazione. Il dilemma voto utile o voto di testimonianza si deve misurare con queste realtà. Paolo Mieli osservava, in proposito, che «in politica contano, sì, le intenzioni, ma non è ininfluente la capacità di costruire qualcosa (ossia le opportune alleanze) che ti metta in condizione di farle quelle cose. Anche in parte. E dovrebbe essere disdicevole che per eccesso di “purezza” tu contribuisca alla vittoria di forze che quelle cose non le faranno mai. Nessuna. Anzi ne faranno di contrarie» («Corriere della Sera», 6/9/2017).
Si aggiunga che è anche difficile fare proposte in tema di diritti ed eguaglianza che non rischino di essere contraddittorie. L’esempio qui è fornito dalla recentissima proposta di abolizione delle tasse universitarie. Quando si dà qualcosa gratis a tutti si avvantaggia chi ha di più, in termini di reddito e di opportunità. Occorre guardarsi da un egualitarismo apparente, buono per uno slogan. Inoltre una misura che può essere accettabile per la sanità, può non andar bene in altri campi. È la stessa critica che a suo tempo provocò l’abolizione generalizzata della tassazione sulla prima casa. Eppure a sinistra l'abolizione delle tasse universitarie ha scatenato applausi unanimi dal «manifesto» a Tomaso Montanari, che l’ha definita «sacrosanta».
Ci sarebbe infine da dire qualcosa sulla partecipazione al voto. La disaffezione è crescente e l’indifferenza diffusa, massima tra i giovani. Il clima è tale che ha provocato un accorato intervento del presidente Mattarella. In parte è un fenomeno fisiologico in tutte le democrazie quando scompaiono le paure per nemici interni o esterni, in parte va ascritto all’affievolirsi della solidarietà sociale con la scelta di modelli di vita molto individualisti. Stili che vanno esaminati, con spirito laico, senza ricorrere a ipotetici corruttori esterni, ma insiti nell’uomo e nella sua evoluzione culturale. In parte ancora può derivare dal ridursi, almeno parziale, del voto di scambio. Meno risorse da distribuire in assistenza, meno voti a chi questa assistenza amministrava. L’analisi dovrebbe essere molto più approfondita, ma se aggiungiamo un forte appiattimento sul presente della vita di ciascuno e un conseguente letargo sulla storia passata e recente, il quadro risulta sufficientemente abbozzato. Del resto se oltre un terzo degli italiani, pare, non si informa mai di politica qualcosa vorrà pur dire.
□ Nel 2018 si celebra il settantesimo anniversario della proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si tratta di un documento d’importanza storica che risponde agli orrori della seconda Guerra dei Trent’anni (1914-1945). Cercando di lasciarsi alle spalle ciò che l’umanità non può più permettersi, la Dichiarazione vuole stabilire i diritti di cui ciascun singolo individuo gode solo in quanto essere umano, a prescindere da qualunque differenza specifica. La Dichiarazione del 1948, quindi, aspira ad essere “universale” perché non intende escludere mai più nessuno e per nessun motivo. Occorre rilevare che si tratta di un paradosso perché questa pretesa di universalità e definitività nasce da un contesto “particolare” dal punto di vista culturale e storico. Il testo si ispira ad altri celebri documenti (es. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese del 1789; basti pensare che nell’art. 1 si stabiliscono i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza) e, più in generale, si nutre del patrimonio valoriale della tradizione occidentale giudaico-cristiana. Nel 1948 solo 10 Stati su 58 non votarono la Dichiarazione. Di questi, ben 6 appartenevano al blocco sovietico: volendo estendere i diritti al di là di quelli ereditati dalla tradizione individualista e liberale, spinsero per il maggior riconoscimento possibile dei diritti economici e sociali e si astennero. Si astenne anche il Sudafrica, per altri e ovvi motivi legati all’apartheid, e non votò l’Honduras. Non sottoscrissero la Dichiarazione anche due paesi arabi: Yemen e Arabia Saudita. Già in sede di discussione della bozza, facendosi portavoce dei paesi islamici, il rappresentante dell’Egitto aveva avanzato obiezioni e riserve di carattere religioso «che non potevano essere ignorate» perché sorgenti «dallo spirito stesso della religione musulmana». La maggior parte dei paesi islamici presenti decise comunque di approvare la Dichiarazione, ma quelle obiezioni ricomparvero tra le motivazioni ufficiali con cui l’Arabia Saudita rifiutò di sottoscrivere il documento: si contestavano, in particolare, il diritto di cambiare religione e il diritto delle donne musulmane di sposare uomini non musulmani. Quel passaggio storico inaugurò un importante dibattito nel mondo islamico che giunge fino a oggi. Le riserve sulla Dichiarazione del 1948 e sui suoi fondamenti ideali hanno prodotto una serie di documenti che da un lato si propongono come alternativi, ma che d’altra parte testimoniano un’adesione profonda e sincera da parte del mondo islamico alla cultura dei diritti umani: la Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo (proclamata nel 1981 presso l’Unesco a Parigi), la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell'Islam (risoluzione 49/19-P della XIX Conferenza Islamica del 1990), la Carta araba dei diritti dell'uomo (nel 2008 è entrata in vigore per i 13 paesi che compongono la Lega Araba la versione del 2004 che emenda quella del 1994). Apprezziamo per la sua ricchezza e vastità il modo in cui si declina in questi documenti la trattazione dei diritti umani, ma non possiamo astenerci dal rilevare alcuni aspetti problematici, a partire dalla significativa scomparsa fin dai titoli del concetto di universalità in favore di declinazioni particolari arabe o islamiche. La Carta del 2004, per esempio, all’art. 1 inserisce tra le sue finalità «insegnare ad ogni persona umana negli Stati arabi la fierezza della propria identità, la lealtà al proprio paese, l'attaccamento alla propria terra, alla propria storia e al comune interesse». Un altro elemento per cui le Dichiarazioni del 1981 e del 1990 si discostano da quella “universale” del 1948 – e che riteniamo un passo indietro sul piano della laicità – è la riconduzione dei diritti umani alla volontà divina e alla Legge islamica. Il testo del Cairo, per esempio, si chiude all’art. 25 con la seguente affermazione: «La Shari'ah islamica è la sola fonte di riferimento per interpretare o chiarire qualsiasi articolo della presente Dichiarazione». Ciò non può non influenzare l’interpretazione dei diritti che la Dichiarazione del 1948 cerca di stabilire in modo assoluto e universale.
□ Dopo le elezioni amministrative e regionali siciliane, stiamo forse assistendo a un’altra resurrezione politica di Berlusconi? Analizzando i risultati parrebbe di sì. Probabilmente alle prossime elezioni politiche Berlusconi non sarà candidabile e Forza Italia è ben lontana dalle percentuali raggiunte nelle precedenti elezioni, e questo lascia aperto il problema della leadership del centrodestra: sarà un moderato proposto da Berlusconi o direttamente Salvini o Meloni? Ma la maggior capacità di fare coalizione del centrodestra e la nuova legge elettorale con un terzo di maggioritario non lasciano dubbi sul più che probabile risultato elettorale. Al Movimento 5 Stelle resterà la soddisfazione di essere il primo partito, ma difficilmente riuscirà a trovare alleati per formare il governo. Il Pd, scontando dopo la batosta subita al referendum di essere sconfitto, cercherà in ogni modo di impedire al centrodestra di raggiungere la maggioranza, costringendolo così a fare una grande coalizione con lui. Neanche per i partitini a sinistra del Pd le prospettive sono rosee. Per avere un peso che non sia pura testimonianza dovrebbero presentarsi uniti, e già questo non sarà facile da realizzare. Ma anche così il loro potere di attrazione è molto ridotto: la classe media ha paura che il loro programma di aumento delle spese pubbliche comporti anche un aumento delle tasse, la famigerata patrimoniale, e il ceto popolare è contrario alla loro apertura all’immigrazione. Il loro obiettivo dichiarato è recuperare tutti gli elettori di sinistra che, delusi, si sono rifugiati nell’astensione che ha superato ormai la metà del corpo elettorale. Ma le elezioni siciliane ci danno una chiara indicazione: pur in presenza di una candidatura forte e molto significativa come quella di Fava, l’astensione non solo non si è ridotta, ma anzi è aumentata. La lista di sinistra ha avuto un risultato molto deludente. Dietro questo fallimento si nasconde una percezione che si diffonde tra gli elettori più attenti, particolarmente di sinistra: le istituzioni italiane hanno ormai ben pochi poteri su ciò che è importante, contano molto di più quelle dell’Unione Europea, quelle delle altre grandi potenze, i centri finanziari, l’industria globalizzata. Questi poteri appaiono lontani e non condizionabili con elezioni marginali come quelle italiane.
Così il panorama che contempliamo è alquanto desolante, perciò forse è il caso di allargare lo sguardo per vedere il contesto generale in cui si svolge questa nostra piccola commedia. Nel mondo è in atto un profondo rivolgimento. Grandi masse, miliardi di persone, che per secoli sono vissute ai margini della storia, fatte schiave, sfruttate, depredate, premono in ogni modo possibile per ottenere il loro posto nella società moderna, per godere di una parte della ricchezza che concorrono a produrre, per far sentire la loro voce e tutto questo si deve realizzare cercando nello stesso tempo di non distruggere l’equilibrio ecologico in cui viviamo. Siamo di fronte a una vera rivoluzione e, come tutte le grandi rivoluzioni, non si presenta come un pranzo di gala. Avviene nel disordine, senza una chiara coscienza della strada da percorrere né una direzione politica. Perciò è contraddittoria, con grandi scoppi di violenza e un pesante contributo di sangue, aperta a tutte le possibilità, anche le più tragiche.
Immerso in questo movimento l’Occidente ha perso la sua centralità, anche se stenta a prenderne coscienza e accettarlo: non è più lui che decide le sorti del mondo. Da qui lo smarrimento e la rabbia che si respirano nei nostri paesi. In questa temperie agli intellettuali occidentali tocca un compito importante: quello di studiare e approfondire la realtà per fare buona informazione e spiegare quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi, ma molti non riescono o non vogliono vedere e pungolare gli uomini e le donne di potere affinché non si attardino con ideologie irrimediabilmente obsolete o cercando ingannevoli scorciatoie, ma prendano giuste decisioni per facilitare questo difficile parto.
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