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Avvertenza

 

Sino al numero 347 (dicembre 2007) l’editoriale viene reso per intero nella pagina in questo numero.

Dal numero successivo il testo completo deve essere letto alla voce specifica editoriali riportati per numero progressivo. Poiché la pagina si apre sempre sull’ultimo aggiornamento, un editoriale deve essere ricercato facendo riferimento al numero del giornale.



 455
Quando il “popolo” attribuisce alla paura il numero più alto della cabala al gioco del lotto («la paura fa novanta»), sentenzia che la paura batte ogni altro sentire positivo o negativo della vita e, in quanto tale, va tenuta presente in ogni scelta e in ogni gesto finalizzato ad un’ipotetica vittoria sul proprio malessere. Freud individua nella “paura” (fobia in greco) una delle reazioni emotive più naturali e universali dei viventi, legata al bisogno psichico di strenua difesa della propria identità, «del proprio equilibrio interno ed esterno», vale a dire personale, sociale e territoriale (Massimo Recalcati).

Come sentire comune, dunque, riconosciuto inalienabile patrimonio, individuale e sociale, delle masse e delle élite, la paura diffusa ‒ generata ad arte ‒ fa audience e assume peso determinante nella dinamica fortemente conflittuale e disgregatrice non solo dell’odierna politica nazionale e internazionale, ma persino della chiesa cattolica. Gli ecclesiastici di professione amano chiamarla “pastorale”, in quanto pratica di governo del “popolo di Dio” gestita dai “pastori”, ma di fatto, agli occhi di una spassionata lettura fattuale della storia, si è finora tradotta nel ritorno all’alleanza trono-altare, cioè a un conservatorismo autoritario, socialmente classista, illiberale, potenziale generatore di conflitti.

La questione è delicata e complessa e noi, ripromettendoci ulteriori approfondimenti nei numeri prossimi del nostro mensile, ci limitiamo a prendere in esame le contraddizioni della politica dei “sovranisti” euroscettici a partire da un intervento di Giuliano Ferrara, che, su «Il Foglio quotidiano» (22-23 settembre), rilancia l’allarme di Williams Davies, un professore londinese di sinistra, sul riemergere in Occidente di politiche demagogiche basate sul primato delle passioni rispetto alla ragione.

Ferrara parte da lontano. Risale infatti ai secoli del passaggio tra tardo medioevo e modernità l’affermarsi dell’idea di un’identità occidentale dell’Europa, vale e dire della presa di coscienza che l’occidentalità non è un dato naturale e fisico-geografico stabile, ma storico, culturale e religioso, soggetto a possibili trasformazioni. Inizia allora la riflessione sulla necessità di mettere in discussione i fondamenti sacri e metafisici del potere politico e di affrontare i conflitti sociali e territoriali non sulla base degli studi genealogici, delle dispute ereditarie e delle insondabili volontà di Dio. Prende lentamente avvio la secolarizzazione. È così che tanto i pensatori che privilegiano l’analisi realistica dei fatti storici, quanto quelli che privilegiano la progettazione razionale di società ideali, costruiscono la «loro teoria dello stato sull’affermazione che la prima missione della politica, per garantire la convivenza sociale, è lo sradicamento della paura, che di per sé genera tribalismo (“sovranismo”) e violenza».

Proprio mentre studiano l’origine e l’influenza delle “passioni dell’anima”, divisi tra l’assegnazione del primato al timore o all’amore, riaffermano concordi che ambedue vanno tenuti sotto controllo della ragione e che l’amore, se sapientemente promosso e ben indirizzato, è socialmente costruttivo, mentre la paura, per tornare utile, va moderata e mai incentivata, onde evitare il rischio delle faide e dell’uso privato della violenza, degli scontri tra bande e gruppi armati, prodromi di ogni guerra civile e tra nazioni o popoli comunque contrapposti e contrapponibili.

Sta qui il drammatico e potenzialmente tragico errore della scelta parafascista di Salvini e alleati. Sta nell’utilizzare la paura conscia e inconscia dell’altro, tanto più travolgente e intensa quanto maggiori sono le differenze che ciascun uomo coglie nel diverso da lui: origine familiare e appartenenza di classe, di paese e quartiere, di passione sportiva, di regione e nazione, lingua e religione, costumi, fisiognomica e colore. Colore soprattutto, che sembra esaltare ogni differenza possibile, anche perché subito appaiata con la povertà, la condizione di vita più palese ai sensi, più temuta per sé e più disprezzata negli altri.

Sappiamo tutti che la vera ma inconfessabile ragione dell’attuale forma di paura e di rifiuto degli stranieri, neri soprattutto, è la loro miseria, bisognosa di aiuto, ma avremmo ritegno a dirlo con un linguaggio tanto crudo e diretto, se, in un impetuoso tentativo di giustificare razionalmente l’eticamente ingiustificabile “cattivismo” politico del Ministro degli interni di questo governo, l’ex magistrato Carlo Nordio non ci mettesse in bocca questo chiarissimo discorso: «Un paese può vivere anche con un’economia disastrata, e persino senza libertà, come avvenne per i regimi comunisti e nazifascisti; ma non può sopravvivere senza sicurezza. E quando questa paura ha cominciato a serpeggiare e a diffondersi, l’Europa ha cominciato a frantumarsi … Nessuno in realtà ha agito per nazionalismo sovranista. Ha agito solo perché il proprio elettorato aveva paura. Non dei neri o dei musulmani, ma delle centinaia di migliaia di disperati senza lavoro, senza soldi e senza nulla che sarebbero stati inevitabilmente destinati a finire tra le strade, nei ghetti, e nelle periferie, alimentando prostituzione, droga e microcriminalità. … Se adesso si manifestano insofferenze e disordini non è per il colore della pelle dei migranti, ma perché molti cittadini sono esasperati da un’invasione che alimenta le loro paure» («Il Messaggero» 20 settembre).

Nordio deve davvero essere innocente, avere un cuore puro e la mente del tutto sgombra dalla conoscenza della nostra storia passata e recente, se ritiene possibile considerare meno gravi gli esiti della sistematica violenza istituzionalizzata delle dittature, rispetto a quelli derivati dalla potenziale pericolosità della microcriminalità dei poveri. Nessuno può, in buona fede, ignorare che le distruzioni di vite, di beni economici, di contesti comunitari, culturali e sociali, provocate dalle guerre tra “i nazionalismi” dittatoriali e democratici del secolo scorso, sono inconfrontabili coi guai che potrebbero derivare da un malinteso internazionalismo “buonista”.

Se, come sostengono i più pessimisti tra i politologi, sulla scorta dell’intramontabile homo homini lupus del vecchio Hobbes, la vera minaccia per gli umani sono gli altri umani, allora, dopo millenni di paure fallimentarmente combattute con le armi e con le guerre, con le milizie di confine, coi muri, coi respingimenti, quando non con le stragi, sarebbe ragionevole tentare di calmierare la paura tra uomo e uomo col reciproco riconoscimento, con l’incontro, l’accoglienza, l’aiuto. Non per addomesticarci reciprocamente, ma per convivere arricchendoci l’uno con le diversità dell’altro.

 454
 Il presente numero è andato in stampa privo di editoriale.

 453
  Molto si è parlato nelle scorse settimane della vicenda della nave Aquarius, bloccata al largo di Malta con 600 profughi a bordo, e del censimento dei rom, proposta dal ministro Salvini per rinfocolare l’odio dei suoi elettori verso “l'altro”, caso mai tale odio rischiasse di attenuarsi. Proviamo dunque a riflettere su questo momento politico a partire dalla relazione che il 17 giugno, presso la comunità monastica di Bose, è stata tenuta dall’ex direttore di «Repubblica», Ezio Mauro, dal titolo «Vivere la polis oggi». Inevitabilmente l’intervento si è incentrato sulla situazione che sta attraversando l’Europa (e con essa l’Italia), e cioè su come fronteggiare una delle ondate migratorie più consistenti e lunghe degli ultimi decenni. Mauro ha introdotto l’argomento partendo dall’episodio biblico di Gen 4,9: il confronto tra i due fratelli Caino e Abele. Quando il Signore chiede a Caino dove sia suo fratello Abele, la sua risposta è spiazzante: «Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?». Emerge qui il concetto di responsabilità, uno dei pilastri della politica e delle democrazie occidentali, fondate per offrire ai membri delle varie comunità garanzie e diritti che non si possono mettere in discussione. Tali principi non derivano di per sé da un credo religioso. Sono la base dell’etica che contraddistingue le democrazie (e che non si trova infatti nei regimi dittatoriali). Purtroppo sembra che oggi questo senso di responsabilità sia venuto a mancare, persino nei politici scelti a ricoprire le cariche più alte dello stato. Mauro ha citato per es. l’episodio dell’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, che, quando si trovò di fronte al Gran Giurì per rispondere del caso Lewinsky, alla domanda «Perché lo fece?», rispose candidamente: «Perché avevo il potere di farlo». Un potere che, secondo qualche presidente Usa, non risponde ad altri che a se stesso. La politica deve al contrario intercettare le inquietudini dei cittadini, risolverle e non alimentarle ad arte. Esattamente il contrario di quello che sta accadendo in molti Paesi dell’Europa, compreso il nostro. In Italia le ultime campagne elettorali hanno usato come cavallo di battaglia i problemi derivanti da una massiccia immigrazione dai Paesi africani e asiatici. Problemi che possono portare alla percezione da un lato di insicurezza crescente e dall’altro alla sensazione di offrire dei privilegi agli immigrati e di offrirli a scapito degli “indigeni”. Purtroppo, sostiene Mauro, facendo leva sull’interesse, l’ideologia di destra sta diventando «senso comune», mentre i partiti di sinistra nicchiano e hanno fallito nel loro scopo di presentarsi come sostenitori dei lavoratori e delle classi disagiate. Recentemente è stata messa in discussione la Convenzione di Dublino (il trattato internazionale multilaterale in tema di diritto d’asilo) e gli stati europei, che fanno parte del gruppo di Visegrad (Rep. Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria), sono intenzionati a non entrare nella spartizione delle quote di migranti. L’Ungheria ha addirittura votato negli ultimi giorni una modifica alla sua Costituzione in cui si afferma che diventa illegale dare asilo e aiuto agli immigrati. Purtroppo sembra che a questo gruppo potrebbero aggiungersi anche Austria e Italia. Emblematico, secondo Mauro, quel che è successo a Gorino, un paesino del delta del Po: gli abitanti si sono rifiutati di accettare nella loro comunità 12 donne africane con i loro bambini. La motivazione? «Qui non c’è niente neanche per noi». Si potrebbe obiettare che nei paesi occidentali si ha fin troppo a propria disposizione e si spreca anche molto; quindi che con una più equa ridistribuzione delle ricchezze si potrebbe vivere meglio tutti, “indigeni” e “forestieri”. Detto ciò, bisogna riconoscere che i problemi reali della gente comune comunque sussistono: la difficoltà di vivere nelle periferie delle grandi città, la precarietà quotidiana per mancanza di lavoro, la crisi economica che ci attanaglia ormai da un decennio. In particolare, Mauro indica come compito dell’Europa e dunque dell’Italia garantire il lavoro e le opportunità per ottenerlo. Il migrante − che sia uno sfollato a causa dei cambiamenti climatici o un rifugiato che scappa da una guerra − come tutti anela innanzitutto alla libertà. Solo in un secondo momento, scopre di avere la facoltà di accedere ai diritti di cui godono tutti i “garantiti” delle democrazie, cioè di noi cittadini della polis. Le democrazie possono perfino prevedere qualche ingiustizia, ma non le esclusioni e offrono garanzie ai membri della comunità. Gli immigrati vengono trattati dalle miopi campagne di respingimento come corpi, come numeri e non come persone ed esseri umani; si svaluta così a grandi passi il valore universale dei principi delle democrazie e si rischia di far fiorire anche in Europa la tesi dell’«uomo bianco», che Mauro definisce «figura biopolitica», come già successo in passato in Sudafrica con l’apartheid e negli Stati Uniti con la segregazione razziale. È un’epoca la nostra in cui i vincenti (i ricchi) credono di poter fare a meno dei perdenti (i poveri) e questi sono lasciati andare alla deriva. Fin qui Mauro. Se però un giorno tutti i perdenti (in questo caso tutti i non italiani, coloro che sono temuti perché "ci portano via lavoro, cultura e identità" si fermassero, incrociassero le braccia, addirittura se ne "tornassero a casa loro", il nostro mondo “di ricchi o para-ricchi” si sfascerebbe in un attimo. Non solo perché i "ricchi" non sanno vivere senza il lavoro dei "poveri", ma anche perché uno è ricco in contrapposizione a uno che è povero e perché è in questa "distanza" che risiede il privilegio tanto amato e difeso. Per essere ricchi i ricchi hanno bisogno dei poveri.

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