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filosofia
La scelta delle opere, provenienti dal Musée d'Orsay, e la loro disposizione suggeriscono di prestare attenzione, oltre che alla suggestiva bellezza dei paesaggi e dei ritratti, anche a una sempre più compiuta ricerca pittorica sul farsi presente della realtà e sul lavoro da compiere per afferrarne e comunicarne il messaggio attraverso la messa in scena della sua variegata e molteplice visibilità. Fin dalla disputa antica tra scultori e poeti sul potere eternizzante delle rispettive arti, sappiamo che celebrare qualcosa o qualcuno (con pennello, scalpello, versi e racconti) significa attribuirgli quella forma “estetica”, quella “visibile bellezza”, che, in qualche modo, sembra poter promettere salvezza «dall'insignificanza che i mortali accomuna». Vele sull'acqua e ombre di gazze sulla neve Monet − ci dicono le scritte che introducono alla prima sala – ha ricevuto dai pittori, che in questo cammino immediatamente lo precedono, l'impulso a non cercare le forme ideali racchiuse nel soggetto-oggetto della sua rappresentazione, anzi, a non porsi neppure il problema del soggetto, emblematico o realistico, della sua pittura. Egli fa propria la loro attenzione a dar forma d'arte a quanto si presenta nella concretezza del vivere comune. Poi, di suo, decide di rifiutare ogni teorizzazione sul dover essere della pittura e dei suoi temi («Non mi prefiggo di seguire alcuna scuola o di imitare alcun maestro») e accetta la sfida a far proprio e a comunicare ciò che di volta in volta lo colpisce, non solo visivamente, nel chiuso delle case, per le vie, lungo i fiumi, le campagne e la marina: «Ciò che voglio fare è dipingere direttamente immerso nella natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fuggevoli». Le opere dell'incipiente maturità, tra cui Regate a Argenteuil e La gazza, prediligono i soggetti il cui centro figurativo è la resa dei giochi di luce e delle conseguenti moltiplicazioni e diversificazioni di immagine, provocate dall'apparizione di una vela, di una fila di alberi o di case, di figure umane, che si specchiano nell'acqua di fiume, di lago e di mare o nelle ombre proiettate dal sole sulla neve o sulle sabbie, nelle ore estreme del giorno. L'impressione che il pittore ne riceve e trasmette al suo ammiratore, con pennellate brevissime di colore schietto e variato, non è solo quella di uno sguardo che abbraccia un paesaggio naturale ricco di forme e di luci inattese. È anche la rivelazione che ogni singola realtà percepibile, come il frammento di orizzonte che insieme li raccoglie, non è definibile come la forma compiuta di qualcosa che c'è; bensì come un'unità complessa di forme, non più che sensibilmente ordinabili. È ciò che la luce ci offre grazie alla sua diversa vibrazione nell'aria e nell'acqua e alle sue angolari deviazioni a contatto con quanto da sé la respinge o in sé l'assorbe. La pittura di Monet, dunque, intende farsi veicolo di quella impressione che l'occhio del pittore, d'un sol colpo, riceve e che il suo pennello, come un tutt'uno, comunica per offrirci ben individuabili squarci di realtà. Squarci che, diversamente lavorati dalle luci e dalle ombre, si fanno presenti come unici, ma anche molteplici. D'altronde uniche e molteplici sono le impressioni che si stampano sulla nostra retina e dalla retina giungono insieme e giustapposte al pensiero, così da obbligarlo a un'interpretazione che mai potrà farsi inequivocabilmente risolutiva. Solo un occhio, ma che occhio «Monet non è che un occhio,– ci ricorda un cartellone citando Cézanne − ma buon Dio che occhio!». L'occhio che ha liberato la pittura dalle concezioni intellettuali astratte della classicità per riportare sulla tela, grazie alla nuova tecnica di frazionamento della pennellata, le impressioni della luce frutto dell'esperienza visiva. Per lui dichiararsi “impressionista” non è da intendersi come soggettiva rivendicazione del diritto di ciascuno a rappresentare le cose come gli capita o gli piace vederle. Da questo punto di vista Monet, a partire dalla seconda maturità, nega di far parte dall'impressionismo, come movimento e corrente pittorica, e dichiara esplicitamente: «Sono desolato di essere stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte del quale non aveva nulla di impressionista». Impressionismo autentico è per lui scoperta e riaffermazione che ogni vivente incontro tra il pittore e la realtà, che gli sta di fronte, è fondamentalmente impressione. Impressione che la realtà, teofanicamente, ma anche frammentariamente e fuggevolmente, propone a un altrettanto frammentario e meteoropatico soggetto senziente. Impressione che è tutto ciò che uomo e realtà possono condividere o, forse, sono. D'altra parte Monet, col crescere dei consensi intorno ai suoi lavori, non più pressato dalla necessità di ripetere il successo delle sue opere più apprezzate e remunerate, si preoccupa sempre meno di inseguire nuovi e più suggestivi soggetti da proporre come esiti avanzati della sua ricerca pittorica. Per dare sempre maggior rilievo al valore veritativo di tale ricerca, egli rinuncia alla molteplicità dei soggetti, per dedicarsi, quasi interamente, all'approfondimento del rapporto tra la realtà e l'immagine, che ha tentato e continua a tentare di cogliere attraverso l'esito visivo ed emotivo dell'impressione che essa produce e che noi cogliamo e facciamo nostra come sua sincera ed immediata espressione. Dà vita allora a una nuova strategia rappresentativa. Sceglie un soggetto che può essere semplice, quasi rozzo nella sua elementarità, come un covone di paglia, o ricco e complesso come la facciata di una cattedrale gotica. Lo osserva e dà forma alle impressioni che il suo sentire riceve da tale presenza, resa leggibile dagli effetti che la luce ne trae, in base alle ore, le stagioni e le variazioni di clima. Luce che crea e dissolve Kandinskij, vedendo da giovane moscovita nel 1913 un esemplare della serie de I covoni, trova che «nessun pittore dovrebbe sentirsi in diritto di dipingere in modo così impreciso». «Sentivo – afferma - che in quell'opera mancava l'oggetto-soggetto. Ma con stupore e sgomento constatavo che non solo essa mi sorprendeva, ma s'imprimeva indelebilmente nella mia memoria […]. La pittura mi apparve, allora, dotata di una favolosa potenza e inconsciamente l'oggetto, trattato nell'opera, perse per me parte della sua importanza come elemento indispensabile». Per Kandinskij ciò ha significato far passare la pittura dalla rappresentazione di un volto, di un paesaggio o di un evento, alla libera associazione creativa di forme e colori che potrebbero evocarli, oltre che evocare ciò che di fatto la creazione dell'artista finisce di suscitare nello spettatore. Per Monet significherà orientarsi a «dipingere l'aria nella quale si trovano il ponte, la casa, il battello. La bellezza dell'aria in cui le cose sono immerse. Il che è non meno che impossibile». Le opere a cui questa citazione introduce (sguardi lanciati a smarrirsi nei candidi ricami della cattedrale di Rouen, abbagliata dal sole o ingrigita dall'autunno; i rosso-oro bagliori che trasformano in una sorta di misterica apparizione nella nebbia il parlamento a Londra: rispettivamente 1893 e 1904) aiutano a dare un senso preciso alle sue parole. L'aria in cui il battello, la casa e il ponte si fanno a noi presenti è l'equivalente terreno della mistica luce della tradizione pittorica. E la luce è l'inafferrabile, che afferrabile si rende, dando forma e colore a quanto altrimenti resterebbe nascosto, e che, solo insieme a lei e con lei, ha qualità di presenza come immagine, assai più che come cosa. Il che fa sì che il fruitore di quanto il pittore ricava da tutto ciò, l'amante dell'arte, possa vedere nel quadro, che ammira, traccia di quell'invisibile che il visibile rivela e nasconde. L'effetto “loto” delle ninfee Qui termina la mostra, ma non l'attività pittorica di Monet, che si conclude vent'anni dopo (e che anni per l'Europa e per il mondo!) con la morte nella villetta di Giverny, dove definitivamente si rifugia con la figlia allo scoppio della I Guerra Mondiale. E questo terminare, così drastico e improvviso, del percorso di una mostra, che vorrebbe servire a illustrare l'intero arco dell'evoluzione pittorica di Monet, è il suo vero e grave limite. Una sorta di censura, che il tentativo di mascherare con la riproduzione fotografica, a mezza parete, di una delle tante tele dedicate dal pittore alla flora del suo giardino, non riesce a rendere accettabile. Monet, con la continua ripresa del tema del giardino (una sorta di edenico hortus conclusus), sembra dirci che, in quegli anni tragici, egli rifiuta di abbandonare i sogni del “suo” secolo per entrare nella realtà di quello che ne sta distruggendo tutti gli ideali. Lo dice anche esplicitamente: col ciclo di studi, già occasionalmente iniziato, nell'ultimo decennio dell'Ottocento, intende esplorare la possibilità di dare forma all'aspirazione umana di ritornare o giungere alla completa immersione nelle forme e nei colori della natura. La sua aspirazione, nell'infinito ciclo pittorico delle ninfee, è quella di penetrare col suo pennello e i suoi colori nel mistero della luce e di quanto nella luce prende vita, fino al punto da potersi, se non identificare, almeno in essa restare inglobato. Ora, però, non insegue più, nell'aria libera degli spazi naturali, le belle e inafferrabili forme che la luce disegna tra il cielo, la terra e le acque. Qui (nel nuovo secolo) la luce ha ormai lampi e oscurità, grida e frastuoni che l'impressione immediata non è più in grado di controllare, perché coi loro fiammeggianti frantumi frantumano anche e definitivamente la capacità dei sensi e dell'intelletto di prendere, di loro e di sé, compiuta coscienza. Dopo aver cercato rifugio in un paese di campagna, abbassa gli occhi dagli orizzonti dell'aria, aperti a ogni vento, a quelli più quieti e silenziosi dell'acqua di lago, anzi di stagno, a loro modo sempre vivi e colorati, ma di una vita sommersa e attutita, silenziosa, dalle mille sfumature di blu, di grigio e di verde, dove persino i rossi e i gialli hanno trasparenze insondabili, prive di ogni angolosità. «Ho di nuovo ricominciato con cose impossibili da fare: dell’acqua con erba che ondeggia sul fondo… È stupendo da vedere, ma è pura follia volerlo fare». E ancora: «Di notte sono ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare. […] Ciononostante non vorrei morire prima di aver detto tutto quel che avevo da dire; o almeno aver tentato di dirlo. E i miei giorni sono contati. Domani, forse…» (1925). Congedo Nel 1924 le Nymphéas vengono installate all’Orangerie des Tuileries, futuro Museo Monet, a Parigi in un allestimento che richiama quello che Monet stesso aveva progettato: un'unica sala oblunga che sui quattro lati vede disposte le sue ultime grandi opere, al cui centro avrebbe dovuto sbucare la doppia chiocciola dell'entrata e dell'uscita. Monet ha finalmente trovato la grande grotta matrice in cui l'acqua e l'aria, mescolandosi in amorevole pace, danno origine alla vita. Nel dicembre del 1926 può dunque spegnersi. Fino all’ultimo ha perseguito la realizzazione di quest’opera, che, secondo il critico e romanziere Gustave de Geffroy, «ci conferma che Monet ha scoperto e dimostrato che tutto è dappertutto». Che sia così non lo possiamo negare. Ma a un tempo dobbiamo tenere presente che, intanto, altri continuava a misurarsi con ciò che accadeva sulla terra, a poche decine di chilometri dal recinto di fiori in cui, ormai quasi cieco, l'ottantenne Monet cercava un sereno congedo dal suo mondo di luci. E riconoscere che costui si preparava a dare precisa e drammatica visibilità a ciò che era accaduto e stava accadendo nello scontro furibondo degli elementi. Se aria, acqua, terra e fuoco, sfiorandosi possono dare origine alla bellezza, quando confliggono possono orrendamente sfigurare e spegnere quella vita che, congiungendosi, avevano creato. Una decina di anni dopo, con Guernica, Picasso avrebbe «scoperto e dimostrato», non a danno dell'arte e dell'uomo, che come tutto può in tutto vivere, anche tutto può in tutto distruggersi.
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