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 386 - Qaestiones disputatae / 2

 

Realtà e verità: quel che Dio ha unito...

 

«Anche per le scienze della natura la realtà esiste prima e indipendentemente dall'uomo. Da qualche millennio questo è il modo di pensare della gente, il “senso comune”. Ma ben prima delle scienze è la filosofia a riflettere sul rapporto tra l'uomo e le cose (di conseguenza sul rapporto tra realtà e verità). … Ora, proprio perché conferma il senso comune, il “realismo” filosofico non è il senso comune, bensì filosofia. La filosofia, infatti, viene alla luce evocando un significato prima sconosciuto della parola “verità” – il significato che domina l'intera tradizione dell'Occidente dai Presocratici a Cartesio, da Hegel, ad Einstein; cioè la verità come “scienza” (epistéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti» (Emanuele Severino, «Corriere della sera» 31-8-2011)

 

 

Non oso dubitarne. Il dibattito in corso tra i cosiddetti “realisti”, sostenitori della inequivoca esistenza oggettiva delle cose e dei fatti, fan della loro corrispondente certezza conoscitiva in termini di verità, e i cosiddetti “relativisti”, teorici dell'innegabile precarietà e mutevolezza degli stati dell'essere, partigiani della conseguente natura interpretativa e soggettiva della verità, è roba seria. Degna della riflessione filosofica e culturale contemporanea. Lo suggerivano nomi e titoli accademici dei protagonisti e ora lo garantisce la partecipazione ad esso di un padre nobile del pensiero novecentesco come Emanuele Severino.

 

Quando conoscere significava possedere le chiavi del cielo

Siamo, ci suggerisce Severino, nel sancta santorum della filosofia, o meglio in quel capitolo, la teoria della conoscenza, che essa ha in comune con la scienza e con la teologia. Ecco perché nessuno può aiutarci a orientarci in esso meglio di Tommaso d'Aquino, quel grande autore di enciclopedie universali del sapere (Summae), che, come maestro dell'università parigina del XIII secolo, si colloca al centro dello sviluppo del pensiero occidentale.

Affrontando la questione dibattuta dalle diverse autorità, classiche, patristiche e contemporanee, relativamente al ruolo che la realtà delle cose e le capacità della mente giocano nella definizione della verità, egli formula questo assioma: «La verità è l'adeguazione tra la cosa e l'intelletto». Vale a dire: essa è il risultato del loro incontro, come comprensione che la mente, secondo le sue capacità, fa delle caratteristiche insite nelle singole cose. Ma poiché le menti non sempre sono conformi e costanti e le cose, nella molteplicità sfuggente del loro divenire, raramente offrono sicuro indice di nascosta stabilità, al fine di evitare la trappola della diversità di opinioni e l'incertezza nella definizione sicura degli esseri, conclude: «La verità consiste nell'intimo e necessario rapporto delle cose con la mente di Dio» (Summa theologica, Questione 16, art. 1).

È proprio di ogni buon pensatore dell'Età di mezzo, del Medioevo cristiano, ebraico, islamico, platonico o aristotelico (quattro scettici esclusi), ritenere che la verità assoluta sta nel progetto che il Sommo Fattore ha del e sul mondo, e che la nostra mente può avvicinarsi ad essa solo se si lascia guidare dal superiore e universale Intelletto a leggere in modo razionalmente corretto i libri della natura e della storia, da sempre in Dio impaginati (Dante, Paradiso, canto 33, versi 78-93)*.

L'immagine del libro è emblematica, siamo nel cuore della civiltà della scrittura e la verità della tradizione non è più affidata a poeti, profeti e sacerdoti, custodi delle antiche narrazioni, ma agli autori degli infiniti tomi che riempiono le biblioteche dei luoghi di studio e ai loro fruitori: chierici e dottori. Anche emblematico, però, è il ricorso alla sottolineatura del carattere speculare-speculativo della conoscenza razionale di qualsivoglia stato di cose e di eventi. A specchio si disegna la verità come incontro tra realtà dell'oggetto e mente del soggetto, perché a specchio dell'idea divina è nato il mondo delle cose e a specchio della divina volontà si disegna quello della storia. Così a specchio della ragione e dell'ethos del Creatore è fatta la ragione e l'ethos della creatura e la legge della natura dà forma alla legge delle libere coscienze, sempre che siano “rette”.

La conoscenza come lettura è la metafora di tutto ciò, è la metafora gnoseologica della realtà della natura, della storia, della mente, nella loro struttura e nelle loro relazioni metafisiche.

Sia chiaro, questa soluzione del problema del vero e del reale non è tipicamente religiosa, anche se le religioni del tempo ad essa si aggrappano come a uno straordinario strumento di potere, prima che, come oggi, a un malsicuro salvagente. Questa visione metafisica del sapere e dell'essere, della naturale contiguità tra forme operative della mente umana (leggi logiche) ed elementi caratteristici e costitutivi delle cose (loro attributi sostanziali) è tipicamente filosofica. Appartiene a tutte le scuole del pensiero classico, da Parmenide in poi, epicurei compresi; quattro sofisto-scettici esclusi, materialisti e idealisti indifferentemente inclusi. Per tutte queste scuole, infatti, l'essere fenomenico delle cose si regge su un fondamento eterno, che esclude il non-essere, ma non il divenire, purché questo segua processi di sviluppo costanti, regolati da leggi non-contraddittorie, simili alle leggi che guidano il funzionamento della ragione nel suo organizzare i dati sensibili e nell'argomentare il valore delle loro diverse possibili interpretazioni sistematiche.

 

Tra trascendenza e immanenza tertium non datur

Che il tutto derivi dall'acqua di Talete, dall'indefinito-infinito di Anassimandro, dai quattro elementi di Empedocle, dai numeri; che continuamente “scorra” con Eraclito, o stia stabile in eterno, riducendo ad apparenza e sogno il divenire, con Parmenide e Zenone; che sia frutto del mondo ideale della mente del platonico demiurgo, ordinatore del caos informe della materia bruta, o, più concretamente espressione di un cosmo strutturato in sostanze aristotelicamente eterne, soggette ad altrettanto eterno ciclo di divenire (passaggio dalla potenza all'atto); che si traduca nelle trame e nei ruoli d'attore di uno spettacolo stoicamente esemplare e ciclicamente perenne o sia frutto dell'aggregazione e disgregazione di atomi ordinatamente democritei o caoticamente epicurei; in qualunque modo, insomma, l'essere del mondo venga spiegato, per i pre e post-socratici, dal punto di vista della nostra possibilità di conoscenza, nulla cambia e tutto è garantito con certezza.

La stessa ragione, lo stesso logos presiede, infatti, per la filosofia classica e per i suoi eredi dell'età patristica e medioevale, la mente dell'uomo, il dispiegarsi dell'universo e l'avvicendarsi della storia. Questo logos altra origine e fondamento non ha che la mente divina, come forza che regola il bene il bello e il vero del mondo. Tale forza è per i Greci immanente, cioè interna al mondo, suo eterno principio di trasformazione e di vita, suo Motore Immobile. Per Padri e Dottori, invece, è biblicamente il suo Creatore trascendente, in se stesso autonomo, liberamente ma inevitabilmente proteso a operare e offrirsi come modello per la totalità delle cose: principi conoscitivi, etici ed estetici della mente umana, inclusi. Incluso pure un supplemento scritto di verità storicamente rivelata, gratuita, ma non superflua, e tale da non contraddire ma perfezionare la natura.

Certo l'alternativa tra immanenza e trascendenza del fondamento divino dell'essere, tra libertà e necessità del divenire, tra filosofia greca e teologia biblica, è potenzialmente dirompente, ma fino a che tale contraddittorietà è mascherata dagli artifici di un complessissimo sistema di ritraduzioni, aggiustamenti, correzioni, mediazioni e persino contraffazioni, la forza persuasiva del sistema è enorme e l'indissolubilità del matrimonio, divinamente benedetto, tra realtà e verità è garantita. Questo, tanto più se l'esperienza quotidiana del mondo sembra confermare la comune teoria dell'eterna immutabilità delle sue strutture, della perennità delle specie o sostanze, dell'assoluta ciclicità della natura e dell'immutabilità dei cieli. Tanto più che, alla centralità della terra e alla naturale superiorità intellettuale dell'uomo rispetto a ogni altro essere terreno, si unisce il conforto, offerto alla precarietà dei mortali, di ritenersi capaci di afferrare, almeno potenzialmente, la realtà dell'universo, di conoscerne il centro e i confini, di non vedersi preclusa la strada a un contatto col supremo fondamento del tutto.

In tale ottica il possesso certo ed esplicito della verità, l'infallibilità, non è sicuramente alla portata di alcun uomo, neppure del più sapiente ed elevato nel grado gerarchico della natura e della società, neppure del poeta e del mistico, ma non è oltre l'orizzonte degli esseri con cui l'uomo sa di potere, in qualche modo, entrare in relazione, essendo essa propria almeno di Dio.

 

Aldo Bodrato

(continua)

 


 

Parola del Poeta-Dottore

 

«E mi ricorda ch'io fui più ardito

per questo a sostener, tanto ch'io giunsi

l'aspetto mio col valore infinito.

 

Oh abbondante grazia ond'io presunsi

ficcar lo viso per la luce eterna,

tanto che la veduta vi consunsi!

 

Nel suo profondo vidi che s'interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l'universo si squaderna:

 

sostanze e accidenti e lor costume

quasi conflati insieme, per tal modo

che ciò ch'io vidi è un semplice lume.

 

La forma universal di questo nodo

credo ch'io vidi, perché più di largo,

dicendo questo, mi sento ch'io godo.»

 

Dante Alighieri, Paradiso 33,78-93

 

 

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