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filosofia
Habermas tra credenti e non credenti
In uno degli ultimi libri di Jürgen Habermas (Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, trad. di Leonardo Ceppa, Laterza 2015) il filosofo scriveva che la sua «visione iniziale della religione che, influenzata da Hegel, ne dava per scontato il superamento dialettico si è effettivamente modificata». |
E chiariva: «Questo spostamento di accento non è dovuto, in realtà, a una mia diversa valutazione del fenomeno religioso – tanto più se pensiamo all'abuso politico del fondamentalismo in Oriente come in Occidente. Esso è dovuto piuttosto a una valutazione più scettica nei confronti della modernità. Non sono più tanto sicuro che i potenziali spirituali, e le dinamiche sociali, della modernità globalizzata abbiano in sé forza sufficiente per arrestarne le tendenze autodistruttive (a partire dall'erosione della sua stessa sostanza normativa)» (pp. 191-92). Ora un'ampia recensione di Marina Calloni su La lettura del «Corriere delle Sera» del 10 novembre riassume l'ultima fatica del filosofo che ha compiuto 90 anni e ha pubblicato da Suhrkamp ben 1727 pagine dei due volumi di Auch eine Geschichte der Phisophie sul conflitto ma anche sul reciproco apporto del pensiero filosofico e religioso nel corso dei secoli, a partire dalla nota tesi di Jaspers della comparsa nella “età assiale”, in Persia, India e Cina, Israele e Grecia, di dottrine religiose e immagini del mondo di cui si è nutrita fino ad oggi la cultura mondiale. La conclusione – secondo la recensione – è che, per Habermas, la filosofia critica “post-metafisica” deve considerare filosofia e religione come paritetiche «figure dello spirito».
Niente di sorprendente per chi ha un po' seguito l'evoluzione di Habermas, il suo confronto con papa Ratzinger, il suo arrovellarsi sul rapporto tra convinzioni religiose e Stato liberaldemocratico. È utile ricordare la famosa domanda avanzata molti anni fa dal costituzionalista cattolico Ernst-Wolfgang Böckenförde: lo Stato liberaldemocratico non ha forse presupposti normativi che esso non è di per sé in grado di garantire? Non ha bisogno di un ethos che trae alimento anche da convinzioni di carattere religioso?
Posizioni prese sul serio
La risposta di Habermas si può riassumere molto in breve nel modo seguente. Punto primo. L'universalità normativa dello Stato democratico è indipendente dalle diverse concezioni del bene dei cittadini. Habermas dice: «la costituzione dello Stato liberale può soddisfare il suo fabbisogno di legittimazione in maniera autosufficiente, attingendo quindi alle risorse cognitive di un patrimonio argomentativo indipendente da tradizioni religiose o metafisiche» (Tra scienza e fede, Laterza 2006, p. 8). È irrinunciabile la conquista moderna della neutralità delle istituzioni statali – parlamenti, amministrazioni, tribunali – rispetto alle varie visioni del mondo e alle diverse credenze metafisiche e religiose. Sul piano politico e giuridico si richiede legittimamente a tutte le posizioni in campo una clausola di traduzione in linguaggio universalistico, si richiede cioè di mettere tra parentesi le convinzioni ultime metafisiche e religiose.
Punto secondo. Tuttavia, per garantire la “solidarietà tra estranei” richiesta dall'assetto liberaldemocratico moderno, le motivazioni pre-politiche religiose, presenti nella società civile, non solo devono potersi esprimere liberamente attraverso la libertà di religione e di associazione, come la teoria liberale ha sempre affermato, ma si deve riconoscere ai credenti il diritto di contribuire in linguaggio religioso alle pubbliche discussioni che si svolgono nella sfera informale pre-politica. Ovviamente Habermas parla di credenti non fondamentalisti e disposti a mettersi in gioco nella discussione pubblica.
Ma Habermas va oltre. La tesi che sostiene negli ultimi scritti è che non si può respingere quanto delle tradizioni religiose è capace «sia di fornire elementi profani di verità sia di sviluppare forza d'ispirazione per tutta la società». Secondo il filosofo, che continua a dichiararsi agnostico, le posizioni religiose devono essere considerate dai laici una «sfida cognitiva» da prendere sul serio e non essere considerate residui irrazionali del passato – come pensa un “laicismo irrigidito”. Secondo Habermas la cultura “post-metafisica” deve «mostrarsi desiderosa di apprendere» dalle tradizioni religiose, perché ci sono nelle grandi religioni «contenuti che possono acquistare una efficacia rigeneratrice per una coscienza normativa in declino» (Tra scienza e fede, pp. 141-42). In particolare, le tradizioni religiose contengono istanze di giustizia e di solidarietà che contrastano la tendenza a distruggere il legame sociale in ambiti sempre più numerosi in una modernità deviante o deragliata rispetto alle sue promesse emancipative.
Escluso ogni integralismo
In conclusione, secondo Habermas, la secolarizzazione come crescente confinamento nel privato e nella coscienza individuale delle credenze religiose – come era prognosticato da Weber e da altri padri della sociologia moderna – non soltanto è smentita dalla realtà storica che vede il ritorno delle religioni sulla scena pubblica, ma non sarebbe nemmeno auspicabile. A suo avviso i cittadini variamente non credenti e quelli variamente religiosi devono mettere in atto «processi complementari di apprendimento» e di riconoscimento nella discussione pubblica, pur nell'autonomia dei rispettivi modi di argomentare. Forse non è neppure necessario che i credenti abbiano una “coscienza riflessiva” capace di relativizzare le proprie credenze e di operare una traduzione in termini universalistici, neutrali e condivisibili da tutti. Le dottrine metafisico-religiose possono anche trovare nel proprio bagaglio culturale le ragioni per aderire ai principi morali della democrazia liberale (cfr. in proposito Mauro Piras, Pluralismo religioso e moralità democratica. Saggi su Rawls e Habermas, Trauben 2010).
Habermas fu deluso dal suo confronto con papa Ratzinger, ma l'ampia apertura di credito con cui aveva iniziato il suo dialogo con Benedetto XVI era comunque sintomatica dei ripensamenti provocati in settori significativi del pensiero laico contemporaneo dal presentarsi sulla scena pubblica delle religioni come monopoliste del "senso" e come alternativa vincente nella crisi delle ideologie e delle grandi narrazioni emancipative.
Habermas ha ragione in questo: possiamo e dobbiamo trovare un terreno comune di ascolto tra non credenti e credenti di varie religioni e confessioni, purché accomunati dall’esclusione di ogni integralismo. Nell'ambito giuridico e politico, laicità significa che nello spazio pubblico, dove interagiscono comportamenti dettati da valori ultimi che possono essere profondamente differenti e anche incompatibili, credenti e non credenti devono mettere tra parentesi le convinzioni ultime per dare rilievo ai risvolti pubblici, ai “problemi di tutti”. In questo spazio occorre pensare e agire etsi Deus non daretur, secondo una famosa espressione di Grozio dell’inizio del Seicento, ripresa e attualizzata più volte da Gian Enrico Rusconi.
Tuttavia – sul piano culturale più ampio – incontro e dialogo non significano confusione di posizioni quanto alle concezioni dell’uomo e della storia (religiose o irreligiose) che è bene siano esplicitate e non annacquate. Anche questo “rispetto della differenza” (delle varie ragioni dei laicismi e delle fedi religiose) fa parte integrante della laicità. Molte volte, per esempio, si è identificata la cultura laica con una prosecuzione secolarizzata – meno autoritaria e dogmatica, più tollerante – dei contenuti della tradizione cristiana. Nonostante Croce, non è però vero che non possiamo non dirci "cristiani", se non nel senso molto generico che il cristianesimo è una delle componenti storiche della nostra cultura, assieme ad altre.
Termino ricordando la scomparsa il 20 luglio di Carlo Augusto Viano, professore emerito dell'Università di Torino, che alla critica delle ideologie religiose e spiritualistiche ha dedicato quello che si può considerare un trittico: Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni (Einaudi 2005); Laici in ginocchio (Laterza, 2006); La scintilla di Caino. Storia della coscienza e dei suoi usi (Bollati Boringhieri, 2013). Secondo Viano la difesa della libertà pubblica dovrebbe agire anche sul piano culturale, oltre che su quello legislativo, dando spazio, dignità e legittimità alla critica delle credenze religiose e del loro preteso appannaggio delle “cose più alte”. La sua critica demistificatrice delle “imposture” – radicalmente estranea alla prospettiva habermasiana – è stata un motivo di riflessione utile anche per chi non era disposto a considerare tali le religioni.
Cesare Pianciola
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