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filosofia
Per secoli queste posizioni si sono fronteggiate: la prima dominante, la seconda marginale. Così fino all'inizio del '900, quando vede la luce una sorta di koiné ermeneutica. Essa considera il “confronto tra le interpretazioni” la via maestra per giungere a una qualche conoscenza della realtà e si scontra con nuove forme di realismo che riaffermano il primato dell'oggetto sul soggetto, della realtà sulle sue interpretazioni. Come si sia giunti alla riproposizione di un dibattito che attraversa l'intera storia della filosofia, ho cercato di metterlo in luce con tre rapidi excursus sulle tappe fondamentali del suo sviluppo. Nel primo (il foglio n. 385) a essere preso in esame è il passaggio dalla visione metamorfica del reale, propria dell'oralità poetica e narrativa, alla visione fissista della metafisica platonica e aristotelica, resa possibile dalla scrittura e dalla ristrutturazione del pensiero su basi logico-dialettiche, vere “levatrici” dell'argomentazione filosofica e scientifica. Nel secondo (n. 386) si abbozza il percorso del nostro tema attraverso il tentativo medioevale di omologare filosofia greca e predicazione cristiana. Tentativo che raggiunge il suo migliore esito nella teologia tomista, che fonda la possibilità stessa della conoscenza della realtà sull'incontro tra struttura fisica delle cose e struttura logica del pensiero e del linguaggio. A rendere possibile tale incontro è il rispecchiarsi della suprema razionalità del loro Creatore nel mondo e nella mente. La crisi e la rottura di questo difficile equilibrio è l'oggetto del terzo articolo (n. 387). Esso individua la nascita della modernità nel rifiuto di sottomettere la ragione alla fede (Pomponazzi) o la fede alla ragione (Lutero, Pascal) e di sottoporre il libero esercizio del pensiero all'autorità della tradizione (Galileo, Bruno). È così che la contiguità tra la filosofia e la teologia lascia il posto alla separazione tra i loro ambiti e che la filosofia rovescia l'antica ancillatio in supremazia. Il razionalismo con Cartesio e l'empirismo con Locke, infatti, tentano per vie opposte la fondazione di metodi conoscitivi razionali, capaci di offrire le basi per una nuova totalizzante enciclopedia del sapere. Il tutto per concludere con Kant che il compito di descrivere l'essere in ogni sua forma è affidato agli schemi interpretativi della ragione. Una ragione cosciente di dover affrontare in modi diversi i problemi connessi alla scienza, all'etica e all'estetica, e soprattutto di doversi misurare con realtà che, descrivibili nel loro esterno apparire (fenomeno), restano in sé inconoscibili (noumeno). La metamorfosi identitaria dell'essere Kant con la sua valorizzazione della funzione critica della filosofia riesce a mettere in mora tanto l'empirismo quanto il razionalismo. Per il primo è l'esperienza a guidare l'intelletto a formarsi i concetti necessari a comprendere se stesso e il mondo; per il secondo il soggetto s'identifica con la ragione che ogni uomo possiede fin dalla nascita e che gli offre gli strumenti logici adatti a scoprire l'intrinseca razionalità del tutto. Kant costringe entrambi a lasciare il campo a un soggetto costruttore delle scienze e legislatore della vita morale. Col criticismo infatti è il soggetto, essere pensante e libero, il solo responsabile di quanto dichiara vero, giusto e bello con i propri schemi razionali, ma un soggetto impossibilitato a fornire la garanzia di una dimostrazione oggettiva delle proprie conclusioni. Esso non è, infatti, abilitato a offrire loro fondamento assoluto, in quanto Dio, chiave di volta dell'universale corrispondenza tra strutture fisiche del mondo e strutture logiche della mente, non è più attingibile dalla filosofia. Al più può essere individuato come postulato della vita morale o come presupposto estetico per garantire al tutto armonia e senso. Possiamo capire che la filosofia, posta di fronte a questa radicale limitazione critica dei poteri conoscitivi del pensiero, abbia tentato di superare questa frammentazione e limitazione del proprio potere di conoscenza e controllo della realtà, puntando tutto sulle capacità di ideazione e azione del soggetto. Solo il soggetto è dunque reale. Reale che, negata l'oggettività della “cosa in sé”, la ingloba come indispensabile ostacolo materiale al graduale processo di realizzazione di se stessa. Per tradurre in sistema filosofico tutto ciò l'Idealismo dell'età romantica deve partire da una sorta di rivisitazione del mito delle origini, ispirato al monismo spinoziano (identità di Dio e natura, di libertà e necessità), ma centrato non sul funzionamento della natura, bensì sul divenire della storia. Inizia con Fichte che assolutizza il soggetto e ne fa la fonte libera (Io-puro) dell'oggetto-natura (Non-io) al cui recupero vitale sono destinati gli io-storici come agenti morali. Continua e si perfeziona con Hegel che individua la legge di tale processo nella contrapposizione dialettica tra tesi (Idea) e antitesi (Natura), destinate a risolversi in sintesi (Spirito). Così l'incontro tra soggetto e oggetto, la loro verità può essere colta solo nel loro concatenarsi temporale e la storia, nel suo complesso e conflittuale alternarsi di civiltà, diventa l'unico vero ambito in cui ci si può riproporre di disegnare il concreto rapporto tra la mente e le cose, come aveva già sostenuto G. B.Vico nella sua Scienza nuova. È infatti nella complessa dinamica della storia universale, letta come “fenomenologia dello Spirito” (farsi di Dio attraverso il farsi culturale e politico dell'uomo), che si perpetua e si rinsalda quella corrispondenza tra realtà, razionalità ed esistenza, che le antiche filosofie e teologie facevano derivare dall'Atto Primo. «Ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale», conclude Hegel e questo suo assioma, ben più “assoluto” del «vero è quanto storicamente accaduto» di Vico, resta la croce a cui s'inchioda l'epistemologia post-romantica. Eccoci, dunque, di fronte a una sorta di nuova metafisica, nata dalla convinzione che esiste un soggetto universale agente e intelligente che, nell'intero cammino della storia, retto da leggi inderogabili, trova insieme la propria realizzazione e la propria conoscenza oggettiva. Ora tale storia procede, secondo l'idealismo hegeliano, sulle ali della cultura e dell'organizzazione giuridica degli stati, secondo il materialismo dialettico di Marx sui piedi dell'organizzazione del lavoro e dell'economia, secondo il positivismo francese (Comte) sul graduale passaggio dall'interpretazione teologica della realtà a quella filosofica, per chiudere con la sociologia o “fisica sociale”. Dall’ottimismo storico al pessimismo radicale Frutto di tutto ciò è l'estendersi dell'applicazione dei metodi di ricerca in uso nelle scienze della natura alle scienze umane, che si moltiplicano rapidamente e provocano una progressiva parcellizzazione specialistica del sapere, capace di generare conflitti d'interpretazione, sempre più radicali. Ogni scienza, infatti, ritiene che «conoscendo tutti gli elementi in gioco e le relative leggi, si possa ricostruire la genesi di ogni evento e anche dedurne tutte le conseguenze». È quest'ottimismo di fondo, sulla capacità dell'umana ragione di conoscere la realtà e di guidarla ad esiti sempre più positivi, la vera matrice di quell'ideologia del progresso, che domina lo sviluppo della cultura, della politica e della vita materiale dell'intero Ottocento e che pone le basi concettuali per il passaggio da una visione fissista della natura ad una evolutiva. Il che finisce col destabilizzare la fiducia nell'oggettività dei tradizionali parametri scientifici di conoscenza, già scossi da Copernico e Galileo, senza per altro riuscire a ristabilizzarne, in modo definitivo, dei nuovi. Persino un fedele rappresentante del positivismo inglese post darwiniano come Spencer, mentre illustra l'evoluzione della realtà come passaggio dal semplice al complesso, dall'uniformità caotica della materia inorganica alla diversificata capacità di relazione degli esseri organici, ritiene di dover ripartire dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno. Individua il fenomeno con ciò che può essere compreso con gli schemi concettuali, che la mente si è formata durante lo sviluppo della specie e delle civiltà, e come noumeno ciò che della realtà più profonda è destinato a sfuggirle e resta mistero che si offre alla sola venerazione religiosa. Ma sarà un avversario accanito dell'idealismo come Schopenhauer a richiamarsi a Kant per dichiarare che l'aspetto “fenomenico” del reale, conoscibile dai processi razionali del pensiero, altro non è che rappresentazione e finzione. Ne fa il “velo di Maya” steso a nascondere l'orrore delle cose, mentre indica nel “noumeno” il vero fondamento del mondo, che il corpo sperimenta come pura “volontà d'esistenza”. Volontà unica e assoluta che genera il mondo frantumandosi in tante volontà, altrettanto uniche ed assolute, in continuo e mortale conflitto tra loro. Maestro del sospetto, ante litteram, Schopenhauer non solo ritiene di dover contrapporre all'ottimismo storico di Hegel il suo radicale pessimismo, ma anche di poter recitare il de profundis dell'epistemologia e di ogni verità razionalmente dimostrata. Denuncia la menzogna delle varie scienze e sostituisce ad esse l'intuizione estetica, la compassione etica e l'ascetismo come rifiuto e ritiro dalla vita e dalla storia, “cimitero del mondo”. È così che il primo filosofo che si apre al confronto col pensiero non-europeo giunge a pensare la realtà non come realizzazione dell'essere ma come suo dileguarsi, come autonegazione dell'io e annientamento del soggetto. Saranno gli echi del radicalismo critico di Schopenhauer a far da contrappunto al predominio filosofico dell'idealismo e del positivismo per tutto l'Ottocento e bisognerà attendere la riscoperta novecentesca di Kierkegaard e di Nietzsche, oltre che il rinnovarsi dell'epistemologia scientifica nei campi della matematica, della fisica, delle biologia e delle scienze umane (psicologia del profondo e antropologia innanzitutto), per entrare a pieno titolo nel clima del pensiero contemporaneo. Aldo Bodrato (continua)
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