Significa, quel detto, che le nostre libertà sono separate: non si sostengono l’una l’altra. Peggio, sono alternative: perché cominci la tua deve finire la mia. E quindi viceversa: perché io possa cominciare ad essere libero, tu devi finire di esserlo. Essere libero vuol dire non avere l’altro tra i piedi. È la libertà dall’altro. All’inizio dà l’ebbrezza dell’emancipazione. Poi arriva l’essiccazione interna, come la pianta strappata al terreno.
L’unica pace possibile, in quell’idea di libertà, è la separazione. Il modello è la sovranità territoriale degli stati: totale qui fino al confine, nulla da quel punto in là, dove regna assoluta la tua sovranità. Differente e separato lo spazio, differenti ed estranei i criteri (come ha bene detto Pascal sulla giustizia di qua e di là dal fiume). E se c’è conflitto decide la forza libera. Ciò che si perde è la comune umanità.
Tra l’una e l’altra libertà, la mia e la tua, c’è un fossato o un muro: non si può valicare per aggredire, ma neppure si può darsi la mano. Sono libertà slogate, non solidali. Solidali non vuol dire rigide come un arto ingessato, ma unite, flessibili, coordinate, come sono le ossa articolate del nostro corpo. Due libertà slogate, fratturate, danno luogo a una minacciosa prova di forza. Infatti, se la tua libertà non comincia mai – perché non sei capace, non sei fortunato, non sei intraprendente, non sei forte – la mia libertà continua, non finisce mai, non incontra mai la tua. Oppure la incontra lontana lontana, piccola piccola, difficile da vedere, trascurabile. Una libertà sconfinata calpesta e offende, senza rendersene conto, perché non vede le altre libertà impedite. Unico rimedio alla legge della libera forza, un Terzo più forte di noi che ci tiene a bada con la minaccia della sua forza.
In verità, dovremmo correggere quel detto: la mia libertà finisce dove dovrebbe cominciare la tua. Ma meglio ancora: la mia libertà c’è “se” c’è la tua; io non sono libero “se non” lo sei anche tu; la mia libertà è vera e degna “se” sostiene la tua, e viceversa. In un'intervista dell'aprile 1945, Gandhi disse: «Soltanto quando l'ultimo può dire “ho ottenuto la libertà”, solo allora io ho ottenuto la mia» (citato da Giuliano Pontara in Uscire dalla barbarie, di prossima pubblicazione).
Ognuno, infatti, realizza la propria umanità nella misura in cui riconosce e sostiene l’umanità altrui. Negando, o non vedendo quella, nega e non vede la propria. Perciò, è la giustizia – il rendere giustizia – la misura e la regola della libertà, e non viceversa. Lo dichiara la civilissima “supernorma” dell’art. 3 della nostra Costituzione. Soprattutto, lo dice la “regola d’oro” dell’etica universale, nella quale sappiamo tutti da sempre – anche se lo vogliamo ignorare per oblio e negazione – che l’altro ha il mio stesso valore essenziale; ciò che faccio a lui lo faccio a me; nessuno è senza l’altro, nessuno è libero dall’altro.
Questa è l’ignoranza della modernità individualista, la cecità della sua corsa sfrenata: l’acerba adolescenza – pur necessaria e valida – della «età dei diritti» (Bobbio) che ancora ignora la maturità dei «doveri verso l’essere umano» (Simone Weil). Il migliore pensiero del Novecento, le filosofie etiche dell’alterità, lo hanno finalmente visto. La politica, e soprattutto l’economia, insieme al costume dominante – cioè le abitudini “gregarie”, delle masse che si lasciano ridurre a gregge conforme – lo ignorano ancora. Intanto, le libertà slogate e scollegate dall’altro umano diventano sempre più pericolose, per tutta la barca oscillante dell’umanità.